Si parla molto della separazione delle carriere in magistratura, tema che dovrebbe garantire maggiore equilibrio tra accusa e difesa. Giusto, sacrosanto. Ma c’è un altro ambito in cui la sovrapposizione dei ruoli genera storture e ingiustizie, e di cui si parla troppo poco: il rapporto tra legislatore fiscale e amministrazione finanziaria. Il problema non è solo come vengono applicate le norme tributarie, ma anche chi le scrive e chi, di fatto, le determina.
Da un lato, il legislatore, che dovrebbe fissare regole chiare ed equilibrate per garantire certezza del diritto e un sistema fiscale giusto. Dall’altro, l’amministrazione finanziaria, che dovrebbe applicarle con equità, senza trasformarsi in un attore che indirizza la politica fiscale. Ma la realtà è ben diversa.
Troppo spesso, chi scrive le norme tributarie sembra recepire più le esigenze dell’amministrazione che quelle dell’economia reale. Il risultato è un sistema fiscale che tende a essere “pro-fisco” in senso sbilanciato, sempre meno orientato alla tutela del contribuente e sempre più un meccanismo punitivo, complesso e incerto. Pensiamo alle continue modifiche normative, ai decreti che introducono obblighi sempre più gravosi per cittadini e imprese, alle interpretazioni restrittive fornite dall’amministrazione e puntualmente recepite dal legislatore come se fossero legge. Un paradosso: invece di avere un Parlamento che scrive le regole e un’amministrazione che le applica, abbiamo spesso un’amministrazione che detta la linea e un legislatore che la ratifica.
Al giorno d’oggi il contribuente non sa mai con certezza se sta rispettando la norma o se domani si ritroverà a dover affrontare una contestazione fiscale per una circolare interpretativa che cambia le regole del gioco. In altre parole, la certezza del diritto è diventata un miraggio. L’inferno burocratico in cui sono costrette a muoversi le imprese italiane è un ostacolo alla crescita, all’innovazione e alla competitività. Eppure, il fisco dovrebbe essere uno strumento di sviluppo, non un’arma di repressione. Invece, sembra quasi che il sistema sia progettato per scoraggiare chi produce ricchezza, con scadenze fiscali che si moltiplicano, adempimenti sempre più macchinosi e un’amministrazione che, invece di essere un interlocutore al servizio del cittadino, si comporta da controparte ostile.
Non è solo un problema economico, ma anche democratico. Un sistema fiscale che non garantisce certezza e prevedibilità mina il fondamentale rapporto di fiducia tra Stato e cittadini. E quando le regole sembrano fatte più per intrappolare che per semplificare, allora il risultato è l’allontanamento dei capitali, ma anche di investimenti e talenti.
Serve una riflessione seria sulla necessità di una separazione netta tra il potere legislativo e l’amministrazione fiscale. Chi scrive le leggi tributarie non può essere influenzato da chi deve applicarle, perché questo genera un conflitto d’interessi sistemico. La politica deve riprendersi il proprio ruolo, smettere di essere passiva e tornare a dettare l’agenda fiscale con una visione strategica. Abbiamo bisogno di un fisco che sia equo, trasparente e prevedibile, che premi chi investe e lavora, e che non consideri il contribuente un sospettato da colpire a ogni occasione. Da qualche settimana a questa parte si parla tanto di riforma della giustizia. Bene, ma il vero cortocircuito è nel fisco. E se vogliamo davvero cambiare le cose, a mio modo di vedere dobbiamo iniziare proprio da qui.