C’è stata una stagione, nella storia del nostro Paese, in cui tutte le speranze erano riposte nella magistratura. Era l’epoca di Tangentopoli, quella in cui il pool di Mani Pulite si proponeva di «rivoltare l’Italia come un calzino», in cui fioccavano gli arresti di politici e imprenditori e anche le condanne. A trent’anni e oltre di distanza da quella stagione, la magistratura ha bruciato quel patrimonio di fiducia agli occhi degli italiani (spesso accumulato attraverso un uso troppo disinvolto della carcerazione preventiva e un protagonismo che non si addice a una toga). E gli scandali giudiziari verificatisi negli ultimi tempi in Puglia non fanno altro che alimentare questa tendenza.
Sia chiaro: tutti gli indagati sono innocenti fino a sentenza definitiva. E questo fondamentale principio di garantismo, tra l’altro solennemente sancito dalla Costituzione, vale anche per i magistrati pugliesi indagati o addirittura condannati in primo grado. Vale per Antonio Zito, il viceprocuratore onorario di Lecce coinvolto in un’indagine su un presunto giro di mazzette per insabbiare le inchieste. Vale anche per Pietro Errede, ex giudice della sezione fallimentare del Tribunale di Lecce che avrebbe assegnato incarichi a determinati professionisti in cambio di regali e favori. Vale, infine, per Giuseppe De Benedictis, l’ex gip del Tribunale di Bari condannato in primo grado a nove anni e otto mesi di carcere per corruzione in atti giudiziari e poi addirittura a 12 anni e otto mesi per detenzione e traffico di armi. Su De Benedictis c’è da aggiungere un particolare. Il suo nome figurerebbe tra i componenti del fantomatico osservatorio di ispirazione fascista che avrebbe dovuto svolgere attività di dossieraggio e poi colpire tutte le toghe sgradite: una vicenda per la quale, tuttavia, il magistrato barese non risulta formalmente indagato.
Se è vero che Zito, Errede e De Benedictis sono ancora innocenti a tutti gli effetti, è altrettanto vero che le inchieste in cui i magistrati sono coinvolti, sommate a casi come quello di Luca Palamara, restituiscono una pessima fotografia della giustizia italiana. E cioè l’immagine di una giustizia non sempre e non necessariamente al di sopra di ogni sospetto, ma all’occorrenza disposta a piegarsi alle ambizioni personali di magistrati e avvocati rampanti, a inserirsi nelle oscure trame della politica, a cedere alle lusinghe di operatori economici disonesti.
Non c’è da meravigliarsi, dunque, del progressivo e inarrestabile calo di fiducia dei cittadini nella magistratura. In un simile contesto è facile che qualcuno scelga o di sottostare ai soprusi che subisce o di farsi giustizia da solo. Il paradosso di fondo, infatti, è che in un sistema di amministrazione della giustizia in cui i magistrati sono delegittimati da certe vicende, il Diritto (quello con la D maiuscola sul quale si regge la civile convivenza tra le persone) non è in grado di tutelare i diritti (quelli civili, politici e sociali che danno senso e contenuto al patto sociale), ma finisce per soddisfare soltanto certi “appetiti”. È una deriva pericolosa che mina la democrazia dalle fondamenta.
In questo contesto serve essenzialmente una cosa: il coraggio di approvare riforme capaci di restituire dignità e credibilità a chi esercita una tra le funzioni più alte e nobili nella società, cioè quella di rendere giustizia. Qualche esempio? Prevedere test psico-attitudinali per chi, incardinato nella pubblica amministrazione come magistrato, è chiamato a prendere delicate decisioni sulla libertà e sul patrimonio altrui. Ancora: riformare il meccanismo di valutazione dei magistrati, che non può e non deve più reggersi sull’autovalutazione. Infine, ristrutturare completamente il Consiglio superiore della magistratura in maniera tale da “sterilizzare” la devastante influenza delle correnti.
Pochi sono i governi che finora hanno affrontato con serietà e decisione il tema della riforma della giustizia, forse memori del monito pronunciato da qualche politico della Prima Repubblica: «Chi tocca la magistratura, muore». Ma adesso quella riforma è più che mai necessaria per far sì che il Diritto torni a tutelare i diritti. In gioco c’è la tenuta della democrazia.