Se al Sud il lavoro vale zero

Il ministro Giorgetti è stato netto: la situazione economica «è più delicata di quanto prefigurato in primavera». Lo spazio in deficit per la manovra è di soli 15,7 miliardi, il debito pubblico non cala, sui conti pesano gli effetti di Superbonus e rialzo dei tassi d’interesse, il ciclo economico internazionale rallenta.

In questo scenario tutt’altro che incoraggiante c’è un aspetto che merita particolare considerazione e cioè la progressiva perdita di potere d’acquisto da parte dei salari: un crollo che rischia di alimentare insoddisfazione e insofferenza nel tessuto sociale fino a comprometterne la tenuta.

Una recente ricerca condotta da Mediobanca evidenzia come in Italia, nel 2022, la perdita di potere d’acquisto dei salati sia stata pari al 22%. Per certi versi, un simile calo è difficilmente spiegabile, soprattutto se si pensa che il costo del lavoro è pari a circa l’8% del giro d’affari complessivo, mentre nel 1980 si attestava addirittura al 18%. Ciò che conta, comunque, è il trend negativo che caratterizza i salari nel nostro Paese e, in particolare, al Sud: tra il 1990 e il 2020, le retribuzioni medie sono diminuite del 2,9%, a differenza di Germania e Francia dove sono aumentate di oltre 30 punti; in più, la quota di valore aggiunto distribuito al lavoro sul totale delle attività economiche è scesa del 10% in 50 anni. Questo vuol dire che il lavoro vale sempre meno.

Discorso a parte per i grandi manager che attualmente guadagnano 649 volte più di un operaio, mentre nel 1980 gli amministratori delegati più pagati incassavano mensilmente uno stipendio “solo” 45 volte più sostanzioso dei loro dipendenti.Tutto ciò fa sì che il modello socio-economico sia percepito come ingiusto. Se si aggiungon una classe politica inadeguata e l’inefficienza della pubblica amministrazione, viene meno la fiducia nello sviluppo del Paese con l’ulteriore conseguenza che alla crescita si è costretti a preferire la sopravvivenza. In questo contesto, come ha sottolineato il sociologo Mauro Magatti sul “Corriere della Sera”, il rischio è, in tutto il Paese ma soprattutto al Sud dove le famiglie a basso reddito sono di più e hanno una minore capacità di far fronte all’aumento dei prezzi tramite il risparmio o l’indebitamento, che si affermi la “secessione dall’idea di comunità” proiettata verso un futuro migliore. E allora eccola la sfida che attende il governo Meloni, attualmente alle prese con la Nadef.

Per fermare il calo di potere d’acquisto dei salari non ci si può limitare agli aiuti economici (piuttosto miseri e di dubbia utilità) assicurati alle famiglie indigenti attraverso la social card e il trimestre anti-inflazione. Bisogna andare oltre e, innanzitutto, rinnovare la più presto i contratti collettivi. Il 50% dei lavoratori italiani, infatti, è coperto da un contratto collettivo scaduto da almeno due anni. Sul punto l’Ocse è stata chiara: l’adeguamento dei contratti collettivi alle previsioni dell’Istat sull’inflazione “fa pensare che i minimi tabellari potranno recuperare parte del terreno perduto nei prossimi trimestri” e la contrattazione collettiva “può contribuire a mitigare la perdita di potere d’acquisto e a garantire una più equa distribuzione dei costi dell’inflazione tra imprese e lavoratori, evitando una spirale prezzi-salari”. Insomma, non c’è tempo da perdere. Come non c’è tempo da perdere su un ulteriore taglio del cuneo fiscale, indispensabile per garantire ai lavoratori buste paga più pesanti, e sulla necessaria ricostruzione di un clima di fiducia nelle istituzioni. Solo così si può fermare e invertire quella secessione che rischia di spaccare irrimediabilmente l’Italia.

Raffaele Tovino – dg Anap

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