C’è una buona notizia nel dossier sulla distribuzione dei pagamenti dell’Irpef pubblicato dal think thank Itinerari previdenziali: in Italia aumenta sia il gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche sia il numero dei contribuenti che versa almeno un euro nelle casse dello Stato. Per una buona notizia, però, ce n’è una cattiva e cioè lo squilibrio nei pagamenti: il 62,5% dell’Irpef è versato da meno del 14% dei contribuenti che costituiscono il ceto medio.
Ovvero il cuore pulsante del tessuto economico-sociale del Paese; in più, il Sud riesce a farsi carico solo del 20% del gettito complessivo perché la sua crescita è ancora troppo bassa. Di qui due ordini di riflessioni.
Partiamo dalla ripartizione dei pagamenti. Dati del 2021 alla mano, gran parte dei 175 miliardi di incassi Irpef viene pagata da un numero ridotto di contribuenti, cioè da quel 14% cui si faceva riferimento e che consiste in circa sei milioni di persone con un reddito annuo sopra i 35mila euro. Ciò accade perché quasi 29 milioni di persone non pagano l’Irpef, in quanto giovani sotto i 18 anni o adulti che però non presentano la dichiarazione dei redditi o denunciano redditi bassi o nulli. Il vero problema, però, è che tutti i governi succedutisi nel corso degli anni – prima di sinistra, poi tecnici e ora di destra – si sono “accaniti” sul ceto medio concedendo benefici solo ai percettori di redditi molto bassi e, nello stesso tempo, facendo sì che i contribuenti con redditi molto alti pagassero troppo poco. Su “L’Espresso” l’economista Carlo Cottarelli ha elencato le misure che hanno concentrato il peso del pagamento dell’Irpef sul ceto medio: la flat tax per le partite Iva con fatturato sotto certi limiti, la rimodulazione delle aliquote che nella sua più recente versione esclude completamente chi incassa più di 50mila euro l’anno, il recente taglio dei contributi sociali solo a favore dei redditi bassi, il taglio all’indicizzazione delle pensioni concentrato sugli assegni medio-alti. Senza dimenticare che i percettori di redditi molto alti – quelli che prendono residenza in Svizzera o a Montecarlo o addirittura vivono di rendita – continuano a pagare troppo poco, visto che l’aliquota sui redditi da capitale non supera il 26%. Con questo “accanimento” sul ceto medio, è difficile ipotizzare ripresa dei consumi e sviluppo economico.
Altra questione è la distribuzione territoriale dei pagamenti. Il Nord contribuisce al gettito fiscale per 100,6 miliardi, pari al 57,43% del totale, il Centro con 38,2 miliardi, pari al 21,83%, e il Sud con “soli” 36,3 miliardi, pari al 20,74%. La pessima “performance” del Meridione è il risultato di politiche economiche poco incentivanti che si sono susseguite negli anni, di forti tendenze demografiche all’invecchiamento e allo spopolamento, oltre che di una burocrazia fragile che ora sta mettendo in pericolo l’attuazione del Pnrr. Ecco perché, come un manager del calibro di Stefano Cuzzilla ha opportunamente ricordato, «il Mezzogiorno ha diritto ad alta velocità e infrastrutture di avanguardia», ma soprattutto «a una transizione digitale ed ecologica del sistema produttivo».
Insomma, il dossier di Itinerari previdenziali ci ricorda quanto sia sbagliato ritenere che le disparità esistenti nel Paese determinino conseguenze negative solo per chi occupa i gradini più bassi della scala reddituale. Il danno, infatti, è per l’intero sistema. Se è vero che senza il Sud l’Italia non riparte, è altrettanto vero che non può esserci sviluppo senza il ceto medio. Qualcuno, a Roma, dovrebbe rendersene conto.
Raffaele Tovino – dg Anap