Nella notte tra lunedì e martedì è stato raggiunto l’accordo sulla direttiva europea in materia di salario minimo. Al contrario delle comuni aspettative, il testo non prevede un obbligo per gli Stati Membri di dotarsi di un salario minimo legale, ma punta ad istituire un quadro per fissare dei minimi adeguati ed equi, rispettando le peculiarità di ciascuno dei 27.
La bozza prevede che gli Stati Membri dotati di un salario minimo legale, con l’entrata in vigore della direttiva, si impegnino a adottare “le misure necessarie a garantire che la determinazione e l’aggiornamento dei salari minimi legali siano basati su criteri stabiliti per promuovere l’adeguatezza al fine di conseguire condizioni di vita e di lavoro dignitose, coesione sociale e una convergenza verso l’alto.”
Tali criteri sono – tra gli altri – il potere d’acquisto, tenendo conto del costo della vita e dell’incidenza delle imposte e delle prestazioni sociali e l’andamento della produttività del lavoro.
Al contrario, per quei Paesi in cui non è previsto un salario minimo legale ma c’è una copertura della contrattazione collettiva superiore al 70% (tra cui l’Italia), la direttiva si limita ad incentivare lo sviluppo e il rafforzamento della capacità delle parti sociali di partecipare alla contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari a livello settoriale o intersettoriale ed incoraggiare negoziazioni costruttive, significative e informate sui salari tra le parti sociali. La bozza non prevede, ahimè, specifici criteri che la contrattazione debba seguire per l’adeguamento dei salari.
In ultimo, nei Paesi residuali non dotati di un salario minimo legale e con una minore copertura della contrattazione collettiva, all’entrata in vigore della direttiva i Governi si impegneranno a prevedere un quadro di condizioni che favoriscano la contrattazione. Stante questa tripartizione di previsioni all’interno della bozza, l’impatto che la stessa direttiva avrà in Italia sarà minimo. Non imponendo l’obbligo di prevedere il salario minimo legale e tantomeno i limiti minimi che la contrattazione collettiva dovrà rispettare, non fa altro che istituire un sistema che in Italia è già esistente. Infatti, le soglie retributive – e i loro aggiornamenti – sono da anni ormai appannaggio della contrattazione settoriale nazionale. Tuttavia, a mio parere c’è un’importanza strategica nell’aver trovato un accordo sulla direttiva: riportare sul tavolo – con una forza maggiore – la questione dei salari minimi e della lotta al dumping sociale.
Come ha affermato il ministro Orlando, infatti, questa bozza è una spinta affinché si riesca ad attuare un intervento sul lavoro povero, magari già prima dell’estate, primo passo di un pacchetto di iniziative volto all’innalzamento dei salari, che dovranno passere anche da un taglio del cuneo fiscale. opportuno ricordare che il salario minimo è una conquista non solo per i lavoratori ma anche per i datori di lavoro laddove riduce la concorrenza sleale ed il dumping sociale; tuttavia, non è una iniziativa che può essere isolata. Le Raccomandazioni all’Italia, contenute nel Pacchetto Primavera, ci ricordano che il mercato del lavoro della penisola conosce sofferenze di vecchia data, tra cui un elevato carico fiscale sul lavoro e la preoccupante situazione del lavoro irregolare. Il salario minimo è, pertanto, un pezzo di un puzzle più complesso )che necessita di un immediato intervento del legislatore sia per combattere la povertà e sia per concedere alle aziende strumenti a supporto della loro produttività. È notorio, infatti, che il benessere dei lavoratori e la produttività dell’impresa siano circolarmente correlati tra loro; dipendenti soddisfatti sono statisticamente più produttivi, e un’azienda più produttiva può innalzare i livelli salariali a vantaggio del work life balance.
Francesco Amendolito è professore straordinario di Diritto del lavoro presso l’Università Lum e presidente di Aidp Puglia
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