Salari, competitività e produttività: vi spiego cosa serve al Mezzogiorno

È noto che in Italia esiste una questione salariale, sia in termini di salari più bassi rispetto alla media europea (la retribuzione media annua lorda per dipendente è pari a quasi 27 mila euro, inferiore del 12% a quella media dei paesi Ue e del 23% a quella tedesca, a parità di potere d’acquisto), sia in termini di marcate differenze regionali.

Secondo una recente indagine della Cgia di Mestre, le retribuzioni dei lavoratori delle regioni settentrionali sono più alte del 35% rispetto a quelle dei lavoratori meridionali. La retribuzione media annua lorda dei lavoratori dipendenti della Lombardia è pari a 28.354 euro, in Calabria, si attesta a 14.960 euro.

Il rapporto Cgia giustifica queste differenze salariali in base alla diversa produttività tra Nord e Sud, più elevata del 34% nelle regioni settentrionali. Le gabbie salari, che imponevano salari differenziati secondo la produttività tra Nord e Sud, cacciate dalla porta negli anni Settanta, in seguito all’adozione del contratto collettivo nazionale di lavoro, sono rientrate dalla finestra per effetto della diversa struttura produttiva delle due macroregioni.

Le differenze di produttività non sono ovviamente imputabili alle differenti capacità personali dei lavoratori in termini di sforzo nel processo produttivo.

Il lettore attento non si lasci ingannare da certe conclusioni superficiali, care a certa propaganda antimeridionale che distingue ancora tra nordici e “sudici”. Le variazioni della produttività del lavoro sono la conseguenza di una diversa dotazione di capitale tra Nord e Sud. Come ammette la stessa Cgia la dotazione di capitale tecnico, di capitale fisso sociale (infrastrutture) e di capitale umano (nel senso di più alti livelli di formazione) è decisamente più elevata nel Nord.

Le politiche di riforma del mercato del lavoro attuate dagli anni Novanta non hanno aiutato il Mezzogiorno a superare il gap di produttività. Le riforme hanno puntato prevalentemente alla riduzione del costo del lavoro (sostenuto anche dalla politica sindacale di moderazione salariale) e a meccanismi istituzionali di flessibilità in entrata ed uscita, incentivando le imprese ad investire nei settori produttivi a bassa intensità di capitale e ad alta intensità di lavoro (edilizia, produzioni a basso livello tecnologico, prevalentemente destinate a soddisfare la domanda locale, agricoltura tradizionale, turismo), limitando l’investimento nei settori più avanzati. In sostanza le imprese meridionali hanno sfruttato le rendite di posizione sul mercato del lavoro, garantite dal meccanismo di flessibilità e dagli incentivi, riducendo drasticamente gli investimenti innovativi.

Il basso costo del lavoro e la flessibilità sono stati quindi le variabili strategiche per sostenere lo sviluppo occupazionale nel Mezzogiorno e hanno aggravato lo stato di arretratezza complessiva della struttura produttiva meridionale, peggiorando le stesse condizioni di lavoro (è inutile citare i dati noti sulle morti bianche nel Sud). La prevalenza dei settori a bassa tecnologia e intensità di conoscenza ha poi esposto le imprese meridionali alla concorrenza dei paesi emergenti e dell’Est europeo che godono dei vantaggi di un costo del lavoro meno elevato. Inoltre una struttura produttiva ad alta intensità di lavoro non incentiva la formazione e questo contribuisce ulteriormente a ridurre la dotazione di capitale umano e la produttività generale.

Il peso dei settori arretrati nella domanda di lavoro, richiedendo lavoratori non qualificati, determina infine una contrapposizione sempre più netta tra manodopera immigrata e manodopera locale con preoccupanti risvolti sul piano sociale. Il continuo salasso di giovani laureati dal Sud verso il Nord e l’estero è un altro riflesso dell’arretratezza, in quanto questo capitale umano non trova una corrispondente domanda da parte degli imprenditori locali. Il meccanismo di incentivi previsto per la Zes unica (la Nuova Sabatini) che concede crediti d’imposta alle imprese che investono in beni strumentali nuovi, materiali e immateriali, funzionali alla trasformazione tecnologica e digitale dei processi produttivi, aiuta certamente la modernizzazione produttiva del Mezzogiorno, ma per poter funzionare adeguatamente occorre modificare la politica salariale, introducendo almeno il salario minimo e ripristinando garanzie contrattuali. Gli alti salari stimolano le innovazioni tecnologiche e la formazione traducendosi in un generale aumento di produttività.

Nel suo rapporto sulla competitività in Europa presentato ieri, Mario Draghi ha sottolineato che le “politiche di repressione salariale per abbassare i costi relativi” non sono strumenti adeguati per aumentare la produttività e che “la competitività oggi è meno legata al costo relativo del lavoro e più alla conoscenza e alle competenze incarnate dalla forza lavoro”. La riduzione di occupazione per le fasce marginali che ne deriverebbe sarebbe a vantaggio di un lavoro di qualità e tecnologicamente avanzato. Ovviamente le code marginali espulse dal mercato del lavoro dovrebbero essere protette da un meccanismo di welfare efficiente e diretto alla formazione attiva.

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