Ora che il Cnel ha definitivamente bocciato la proposta di introduzione del salario minimo, il rischio è che il dibattito sul lavoro povero cada nel dimenticatoio.
Equivarrebbe a uno schiaffo in pieno volto soprattutto a quei ragazzi meridionali che, dati Istat alla mano, devono fare i conti con povertà crescente, scarsa qualità della vita e impossibilità di staccarsi dalla famiglia di origine. Il rapporto dedicato dall’Istat ai giovani del Sud presenta numeri allarmanti.
L’andamento affannoso dell’occupazione, con la carenza di opportunità lavorative stabili e di buona qualità, penalizza soprattutto i ragazzi tra 20 e 34 anni tra i quali il tasso di attività cala dal 60,3 al 54,5%, mentre quello di occupazione scende dal 45,3 al 41,6%. Questi dati si riflettono sull’impoverimento della popolazione giovane del Sud e sui suoi scarsi standard di vita. E l’incertezza aumenta nelle regioni, come la Puglia, caratterizzate da un basso Pil pro capite e da disoccupazione ancora alta.
In questo scenario la politica non può adagiarsi. Le opposizioni e i sindacati non devono crogiolarsi nella sconfitta e aspettare che il governo cambi per ottenere qualche risultato apprezzabile nella loro battaglia contro il lavoro povero. Di contro, la maggioranza parlamentare non deve accontentarsi di aver scampato il pericolo dell’approvazione di una misura sulla quale non concordava. Tanto più in un momento storico come quello attuale, caratterizzato da un’inflazione in costante calo ma anche da una altrettanto costante erosione del potere d’acquisto dei salari.
Che cosa fare, dunque? La “cassetta degli attrezzi” di cui ha parlato Renato Brunetta, presidente del Cnel, è sicuramente un punto di partenza: il rafforzamento delle attività ispettive, un intervento legislativo per spostare l’attenzione sul salario “giusto” più che su quello “minimo”, misure a sostegno di una contrattazione collettiva di qualità e la nascita di un National Productivity Board per l’Italia rappresentano un solido punto di partenza ma non possono bastare. Un segnale importante sarebbe il rinnovo dell’oltre 50% di contratti collettivi scaduti, molti dei quali senza meccanismi di adeguamento del livello delle retribuzioni al costo della vita, e la cancellazione di una serie di distorsioni del mercato del lavoro sulle quali il salario minimo non avrebbe comunque inciso: cattivo funzionamento dei tirocini extra-curriculari, utilizzo senza freni del part-time involontario, abuso della parasubordinazione.
A tutto ciò, sempre in considerazione del particolare momento storico, dovrebbero aggiungersi misure volte a difendere il potere d’acquisto di stipendi e pensioni. Insomma, nessuno può e deve commettere l’errore di accantonare la discussione sul lavoro povero, tema che riguarda soprattutto i giovani meridionali. Non può permetterselo la politica, che si gioca una buona parte di credibilità, e non possono permetterselo i sindacati, che dal dibattito sul salario minimo escono divisi e piuttosto malconci. Tutto si può fare, tranne una cosa: continuare a ignorare il problema come si è colpevolmente fatto per anni.
Raffaele Tovino – dg Anap
Bentornato,
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