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Ritroviamo il coraggio di indirizzare il passato verso un futuro desiderabile

Noi umani raccontiamo storie: il bisogno o, per dire meglio, il desiderio di narrarle dà senso e significato alle nostre esperienze. Forse è un modo per raccontarci quanto la vita sia sotto il nostro controllo. Storie in cui vestiamo abiti diversi imparando così a recitare i copioni dei tanti personaggi della commedia umana. Anche se, con raffinato autoinganno, affermiamo che in fondo l’Io, che quelle storie racconta, ha un’identità autentica: il proprio Sé.

Narrare le nostre storie offre una sponda ai trambusti esistenziali mettendoci al riparo da spaesamenti e incertezze, maldestrezza e vergogna di cui la specie umana porta stigmi indelebili.

Tuttavia gli imprevisti della vita urtano la linearità dei nostri racconti, faticosamente costruiti, facendoli talvolta vacillare. Siamo esposti all’errore.

Equando sbagliamo è perché possiamo scegliere di farlo: della pietra che cade o del televisore che non si accende non diremmo propriamente che sono in errore.

Oggi, come mai nel passato, sperimentiamo passaggi repentini, e il disorientamento che ne segue, tra i tanti ruoli che proviamo a interpretare. I destini individuali e collettivi si disfano con estrema facilità, cosicché avvertiamo l’urgenza di imparare a destreggiarci nell’uso quotidiano di abilità insospettate fino a qualche decennio fa: ragionamento, decisione, negoziazione di conflitti, gestione di improvvise incontinenze emotive.

Milan Kundera, il famoso scrittore ceco, nel suo capolavoro, L’insostenibile leggerezza dell’essere, sosteneva che l’esistenza umana, la vita di ciascuno di noi, non sia replicabile. È questa impossibilità che conferisce ai nostri itinerari esistenziali quella leggerezza insostenibile, preludio a una paradossale irrilevanza delle nostre scelte. Nel teatro della vita non ci è concessa la possibilità di provare e riprovare, così come accade sulla quinta di un palcoscenico: esperienze, eventi, accadimenti sono unici.

Tuttavia, oltre a raccontare le nostre storie, possiamo immaginare i nostri futuri, averne una visione. Il futuro in larga misura è gravido di quotidianità prevedibili (abitudini, routine) e altresì di aspettative, aspirazioni, desideri, progetti, promesse, impegni, preoccupazioni, paure. Il futuro è un non ancora, ma averne una visione lo rende attivo e operante nel qui e ora del presente. Aspirare a qualcosa, come un certo lavoro, una relazione sentimentale o una trasformazione sociale vuol dire dare un senso al futuro inter-agendo e modificando il presente. È un buon motivo per contenere nei limiti del necessario le abitudini, così da evitare la gabbia del conformismo, sviluppando invece aspettative, desideri, aspirazioni che ci inducono a scorgere opportunità, ad aprirci al possibile: a ciò che potrebbe essere altrimenti.

La fase storica in cui viviamo è attraversata da una crisi del futuro, anche l’espressione un po’ trita “il futuro non è più quello di una volta”, indica la torsione che subiscono le nostre visioni. Per tutta la modernità, abbiamo creduto che il domani sarebbe stato migliore dell’oggi.

Una credenza che ha alimentato, anche un po’ ingenuamente, la fiducia assoluta nel futuro, il cui orizzonte oggi si è così tanto ravvicinato da sembrare sovrapposto al presente.

Forse questa è la sfida: ritrovare il coraggio di far convergere le esperienze del nostro passato, le storie che raccontiamo, gli errori commessi, verso un futuro che, sebbene appaia poco attraente, possa rivelarsi ancora desiderabile. Difficile, ma non impossibile.

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