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Il rispetto e la libertà non sono negoziabili

Un bacio. Un singolo, semplice, indesiderato bacio. Quello che fino a ieri poteva essere liquidato come “un momento di debolezza” o “un malinteso”, oggi può costarti il lavoro. E no, non stiamo parlando di una soap opera aziendale, ma di una sentenza della Corte d’Appello di Torino che ha appena riscritto le regole del “gioco” sul tema delle molestie sul posto di lavoro.

La scena ha qualcosa di tristemente familiare: una festa di pensionamento in un edificio universitario, un dipendente della reception visibilmente alterato dall’alcol che decide di “allontanarsi senza motivo” dalla sua postazione. Il resto? Un abbraccio non richiesto, qualche frase di apprezzamento di troppo e, ciliegina sulla torta, un bacio sulla bocca senza alcun consenso. La collega, comprensibilmente, rimane di sasso. Ma quello che succede dopo è ancora più sorprendente.

Il tribunale di primo grado, con quella saggezza tutta italiana che a volte lascia perplessi, aveva stabilito che non c’era giusta causa per il licenziamento. Perché? La vittima aveva denunciato “con ritardo” e non aveva “chiesto aiuto immediatamente”. Come se esistesse un manuale delle tempistiche perfette per elaborare una molestia. Come se ci fosse un timer che scatta nel momento esatto in cui qualcuno viola la tua dignità personale. Il lavoratore, così, era stato reintegrato. La giustizia aveva parlato, o almeno così sembrava.

Ma ecco che arriva la Corte d’Appello di Torino con la sentenza n. 150/2024 e ribalta tutto come un tavolo da poker. E qui dovete segnarlo in agenda: anche un singolo gesto a sfondo sessuale, se non richiesto, può costare il posto di lavoro. Non servono testimoni, non serve che ci siano più vittime, non serve nemmeno che il danno sia “grave”. Basta la parola della persona offesa, se ritenuta credibile.

La Corte ha tirato fuori l’articolo 26, comma 2, del D.Lgs. 198/2006 – il famoso Codice delle pari opportunità – e ha fatto quello che doveva essere fatto da tempo: ha chiamato le cose con il loro nome. Quei comportamenti “indesiderati a connotazione sessuale” che “violano la dignità della persona e creano un clima intimidatorio, ostile, degradante” non sono più “ragazzate” o “malintesi”. Sono molestie. Punto. Ma la vera rivoluzione di questa sentenza sta in un altro aspetto: il valore della testimonianza della vittima. Perché se è vero che in sede penale serve il famoso “riscontro esterno”, in sede civile le regole cambiano. La sola parola della vittima può costituire prova piena, se il racconto è coerente, preciso e plausibile. E così è stato: una ricostruzione dettagliata, senza contraddizioni, priva di toni vendicativi. Anche il ritardo nella denuncia? Irrilevante. Perché, diciamocelo chiaramente, chi ha mai stabilito che una vittima debba reagire secondo i nostri tempi e le nostre aspettative?

Ora, prima che qualcuno gridi al “femminismo esagerato”, fermiamoci un attimo. Questa sentenza parla di rispetto. Di quel rispetto che dovrebbe essere scontato in qualsiasi ambiente di lavoro e che invece, troppo spesso, viene considerato un optional. Come se il consenso fosse una gentilezza e non un diritto fondamentale.

E qui arriviamo al punto cruciale: lo stato di ebbrezza non è una scusante, ma un’aggravante. Essere “fuori controllo” non giustifica nulla. È come dire: “Scusi se l’ho investita, ma ero ubriaco”. Non funziona così.

Alla fine, il messaggio è chiarissimo: il rispetto non è negoziabile. Non importa se sei il simpaticone dell’ufficio, se “era solo uno scherzo”, se “non volevi offendere”. Se l’altra persona non gradisce, se si sente violata nella sua dignità, se quel gesto crea un clima ostile, allora è molestia. E le conseguenze possono essere molto serie.

La libertà di uno finisce dove inizia la dignità dell’altro/a.

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