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Riprogettare il lavoro recuperando la dimensione conviviale preindustriale

Quella sera alla Lega socialista, dopo una vivace discussione tra i pochi presenti sul futuro della società, uno dei partecipanti alla riunione, salutò e prese la via di casa “seduto in quel bagno turco di umanità frettolosa e scontenta che è un vagone della metropolitana”. Uscito dalla stazione, dopo pochi passi, giunse in uno squallido e male illuminato sobborgo di Londra. Guardò in alto: c’era una luna a tratti coperta da un vecchio olmo, tuttavia lo sguardo, nonostante non avesse voluto, cadde su quell’orribile ponte che sovrastava il quartiere. Giunse a casa, si mise a letto e si addormentò in pochi minuti.

Sognò di svegliarsi e di ritrovarsi a vivere situazioni davvero sorprendenti. Era in una Londra completamente diversa: tranquilla e felice, curata e abbellita. Gli abitanti fondavano i loro rapporti sulla reciproca collaborazione: ciascuno contribuiva al benessere della comunità secondo le proprie capacità. Ebbe modo di constatare che in quella società erano assenti sfruttamento e oppressione; al degrado dell’industrializzazione si era sostituito il decoro di forme architettoniche semplici e gradevoli; tutte le attività erano svolte con piacere e motivazione.

Era il 1891 quando un inglese di grande talento, William Morris, scrisse un delizioso romanzo utopico, Notizie da nessun luogo, di cui, sommariamente, ho dato qualche cenno.

La rivoluzione industriale fu portatrice di eventi sconvolgenti: il processo continuo di urbanizzazione sradicò milioni di contadini che si stabilirono nelle nascenti, brutte e fuligginose, città industriali. Si formò un proletariato povero e senza radici; si concentrarono schiere numerose di operai in uno stesso opificio. Chi entrava nella fabbrica doveva interrompere qualsiasi rapporto col mondo esterno. Il lavoro era compiuto sotto sorveglianza e secondo una ferrea disciplina. Si andava realizzando il sistema industriale: milioni di uomini e donne modificarono i propri ritmi produttivi, i rapporti affettivi e di lavoro, quelli con il quartiere e con la propria dimensione domestica. Le macchine e le nuove tecnologie portarono incrementi di produttività impensabili poco prima, a ritmo sempre più rapido crebbe la produzione di beni materiali.

È in queste circostanze che si originò uno dei primi paradossi dell’economia capitalistica: la miseria, non solo economica, che si accompagnava all’abbondanza. La società industriale, nonostante l’eccesso di merci, distribuendo iniquamente la ricchezza prodotta, non permetteva a tutti di comprarle: non erano soddisfatti i bisogni in quanto tali bensì solo quelli dotati di potere di acquisto. Lo sviluppo del processo produttivo provocò una netta divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale: i due diversi momenti della ideazione e della realizzazione di un prodotto furono drasticamente separati tra loro. All’interno della fabbrica e, poi anche, degli uffici le diverse mansioni, considerate singolarmente, erano prive di senso compiuto. L’operaio, rotella di un ingranaggio meccanico, destinato a compiti parcellizzati, perse completamente di vista il progetto d’insieme: il valore d’uso del suo prodotto non lo riguardava. Nel 1956 negli Stati Uniti per la prima volta in un paese del mondo gli addetti ai servizi superano quelli dell’industria e dell’agricoltura messi assieme. È l’esordio di una profonda trasformazione sociale, ed è indubbio che il contesto in cui oggi viviamo tende a differenziarsi in modo radicale dalla società industriale. Non è solo una questione quantitativa, la produzione e la diffusione di servizi immateriali conquistano il centro del sistema fin qui occupato dalla fabbricazione in serie di beni materiali.
Si assiste al passaggio da un’economia di produzione a un’economia di servizi. Cresce l’importanza dei lavoratori della conoscenza: diventano centrali il sapere, le doti cognitive e le capacità relazionali. La scienza e la tecnologia raggiungono traguardi finora impensabili, dalla biologia genetica alla chirurgia digitale, dal telelavoro alle comunità virtuali. Lo sviluppo economico è accompagnato dalla riduzione del lavoro necessario a produrlo: nel 1979 un lavoratore della Fiat costruiva 9 vetture nello stesso tempo in cui oggi ne costruisce molte decine.

Benché l’attuale sistema economico-sociale, per alcuni aspetti, appaia uguale al passato è invece profondamente mutato. Si avverano eventi che ci sconvolgono e ci rendono insicuri: è l’ansietà di un eccesso di complessità che provoca disorientamento. Eppure una delle maggiori paure del nostro tempo, la disoccupazione, potrebbe risolversi in una formidabile opportunità, nonostante che i responsabili delle organizzazioni produttive, invece di sfruttare le innovazioni tecnologiche per produrre i medesimi beni in meno tempo, preferiscano produrre più beni nel medesimo tempo. La società post-industriale possiede i supporti tecnologici e organizzativi per realizzare una gestione del tempo capace di conciliare l’alta produttività con i ritmi di lavoro personali, le esigenze della produzione con la piena occupazione, il lavoro creativo con i bisogni individuali e collettivi. In questo processo di dissoluzione e ricostruzione il punto cruciale è la relazione: quando si eroga un servizio sia l’erogatore che il fruitore sono legati da un rapporto comunicativo e la comunicazione è un agire umano che dà senso e identità. Se l’operaio alla catena di montaggio era privato di qualsiasi dimensione intellettuale, il lavoratore ideativo può nutrirsi di sensazioni e saperi, tra i quali leggere, ascoltare, viaggiare.

In definitiva occorrerebbe riprogettare il lavoro in modo da conservare i vantaggi della produttività industriale, recuperando la dimensione conviviale preindustriale. L’utopia sognata dal protagonista del romanzo di William Morris potrebbe, almeno in parte, diventare una possibilità.

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