L’ultimo referendum ha fallito il suo obiettivo prima ancora che si potesse entrare nel merito della questione. Non per mancanza di ragioni, né per la complessità del tema. Semplicemente, come accade ormai da anni, non si è raggiunto il quorum.
È un copione che si ripete e che sembra aver svuotato di senso uno degli strumenti fondamentali della nostra democrazia diretta. Un paradosso tutto italiano: abbiamo uno strumento per decidere “dal basso”, ma lo rendiamo inaccessibile attraverso una soglia che non tiene più conto della realtà del Paese.
L’articolo 75 della Costituzione stabilisce che un referendum abrogativo sia valido solo se vi partecipa la maggioranza degli aventi diritto al voto. Una formula nata in un’Italia dove la partecipazione elettorale sfiorava il 90% e dove il problema non era certo l’astensione.
Oggi siamo in un altro tempo. La crisi della rappresentanza, la sfiducia verso le istituzioni e una società disillusa hanno portato l’affluenza alle urne a livelli sempre più bassi. Le ultime elezioni politiche hanno visto votare solo il 63,9% degli aventi diritto. La media delle ultime tre consultazioni si attesta attorno al 70%, ma la tendenza è chiara: votano sempre meno italiani.
E allora sorge spontanea una domanda: ha senso mantenere un quorum così scollegato dalla partecipazione reale?
Non si tratta di eliminare il quorum, ma di aggiornarlo con intelligenza democratica. Da tempo rifletto su una proposta che oggi condivido ad alta voce: e se il quorum del referendum fosse fissato al 50% + 1 della media dell’affluenza alle ultime tre elezioni politiche nazionali?
Significa che, se in media vota il 70% degli elettori, il quorum si attesta al 35% + 1. Una soglia ancora significativa, che non svilisce il referendum, ma che lo riporta dentro i confini della realtà.
Oggi, invece, il paradosso è che per far fallire un referendum basta non andare a votare, e questa strategia – usata da partiti e leader trasversalmente – ha trasformato l’astensione in una tattica di sabotaggio. Ma non è così che si costruisce una democrazia sana. La democrazia vive di partecipazione, di confronto, anche di scontro. Non di rinuncia.
Rivedere il quorum non significa delegittimare le istituzioni. Al contrario: significa riconoscere che la legittimità si costruisce anche nella capacità di aggiornare le regole del gioco, quando queste non funzionano più.
Serve una riforma costituzionale, certo. Ma serve prima ancora un’assunzione collettiva di responsabilità: da parte della politica, dell’informazione, e anche di noi cittadini. Non possiamo accettare che il referendum diventi una scatola vuota, buona solo per qualche esercizio retorico e poi sistematicamente affossata.
Chi ha davvero fiducia nella democrazia non teme il voto, nemmeno quando arriva “dal basso”. Al contrario: dovrebbe essere il primo a volerlo rendere possibile, efficace, e credibile.
Il quorum proporzionale all’affluenza media delle ultime tre elezioni potrebbe essere una via di mezzo sensata tra la rigidità del passato e la flessibilità di cui abbiamo bisogno oggi. Non è una fuga in avanti, ma un atto di equilibrio. Un gesto di fiducia nella partecipazione, anche imperfetta, ma viva.
Forse è il momento di fare spazio a proposte come questa. Di ascoltarle, discuterle, migliorarle. Perché il cambiamento parte anche da qui: da una regola ripensata, da un quorum riformato, da una voce che torna a contare.
Bentornato,
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