Le città sono diventate ormai da tempo fenomeni geografici complessi, nature alternative che si sovrappongono alla natura vera, operando spesso strategie destabilizzanti.
In tal senso la sostenibilità, termine abusato e il cui significato viene ignorato persino dagli addetti ai lavori, non va più considerata solo uno strumento tecnico, ma va inglobata in questa nuova visione planetaria che riguarda il rapporto tra due “nature”, ossia architettura, città e tecnologia, intese, nell’insieme, come “seconda natura”, e la vera natura in quanto tale.
In quest’ottica gli edifici stessi rappresentano vere e proprie micro-città, complessi che possono raggruppare insieme funzioni e spazi differenti, e al cui loro interno coesistono entrambe le dimensioni del pubblico e del privato, intese come “micro-nature”, in modo da concretizzare allo stesso tempo un’interfaccia tra lo spazio privato e lo spazio pubblico della città verso cui si aprono.
Questa costante interconnessione tra natura artificiale e natura reale deve diventare il tema fondamentale della città del futuro, anche e soprattutto a fronte dell’ormai indiscutibile “cambio climatico” causato dall’aumento della concentrazione dei gas serra in atmosfera.
Molto spesso, o sempre, affermerei con certezza, il concetto di “verde urbano” viene drammaticamente banalizzato (persino la terminologia è banale), direi sistematicamente mortificato, alienato, reso inconsistente allo scopo, sia dalle amministrazioni pubbliche sia da progettisti incompetenti.
Il “verde pubblico” viene ancora considerato un mero indice urbanistico, fine a se stesso, un insulso spazio verde a terra, sempre sistematicamente di risulta, che sia capace di soddisfare semplicemente un requisito matematico. Esso viene rappresentato come un mortificante “recinto” inutilizzato con all’interno un numero indefinito di alberi (quando va bene), e quando essi sono tanti, tutti sono infantilmente felici.
Gli spazi verdi sono luoghi concepiti con criteri ormai obsoleti che prevedono percorrenze prestabilite e deprimenti, vialetti circoscritti da imbarazzanti siepi che costringono a fruizioni noiose e banali verso il nulla, a cui nessuno accede perché poco attrattivi in quanto privi di stazioni passanti di ‘servizio’, di interconnessioni spaziali e luoghi che suscitino sorpresa o livelli prospettici illuminanti. Ossia, spazi ‘verdi’ non attrezzati, non compenetranti, isolati e disconnessi non solo dal contesto circostante, ma anche al loro stesso interno, replicando concetti antichi in cui sono assenti commistioni di attività diversificate, funzionali, contemplative e attrattive, e che risultano lontani dall’identificarsi come luoghi urbani connessi all’interno di una città.
Nulla a che vedere con strutture morfologiche consolidate e compenetrate, connesse alla città, che dovrebbero essere parti integranti di un “costruito ricongiunto” appartenente alla “seconda natura”, a contatto con la natura vera, e di cui la natura vera è parte.
Questa “strategia di interconnessione” tra “seconda natura” e natura vera ha lo scopo di stimolare il riequilibrio di quei nuclei urbani frazionati che sono le città, urbanisticamente segmentati, densi di innumerevoli non-luoghi, affinché si adottino i fondamenti decodificatori che puntino al riconoscimento di contesto urbano e di identificazione di luogo pubblico, eliminando le innumerevoli stratificazioni spaziali e temporali in modo da creare giunti aperti di collegamento tra gli spazi liquidi in una città diffusa.ù
Si delinea quindi la definizione del concetto di città contemplante dotata di servizi essenziali alla vita quotidiana e munita di filtri verdi consistenti tramite ramificazioni di biodiversità vegetale in cui si innestano a loro volta anche tutte le infrastrutture della mobilità pubblica e condivisa.
Un’idea di spazio urbano attrezzato in cui la “natura alternativa” non sia più palesemente riconoscibile e disconnessa, ma possa mimetizzarsi con la vera natura, innestandosi, in un tutt’uno, nel nucleo urbano impadronendosi di spazi fino ad allora impermeabili, e in cui si moltiplicano gli spazi in successione come luoghi fondamentali di incontro e condivisione.
L’inserimento di tali consistenti zone di transizione a verde funge quindi da collante, e permette di strutturare lo spazio urbano come un grande parco naturale diffuso e compenetrante che contiene una serie di poli del costruito correlati tra di loro.
Con questo preciso paradigma, certamente non facile da attuare, e che funge da manifesto di come le diverse “nature” possano convivere senza limiti, lo scopo dichiarato di tentare processi puntuali di riforestazione metropolitana, sia a terra, sia direttamente sugli edifici, posizionando alberi e arbusti in verticale, avrebbe davvero un senso e una risoluzione definitiva.
Con questa impostazione la “seconda natura” non correrebbe il rischio di sancire la negazione del mondo naturale, risultando posticcia e priva di concretezza, e non avrebbe certamente la parvenza di una sorta di cementificazione mascherata, creando feticci che illudano nel definire un rapporto simbiotico con il costruito.
Con tali presupposti i progetti di rinaturalizzazione urbana e di compensazione ecologica, con l’obiettivo dichiarato di ridurre il riscaldamento urbano, sono un’arma straordinaria.
L’innesto di consistenti nuovi contesti naturali raccordanti in ambiti urbani fortemente antropizzati, unitamente alla riqualificazione del verde preesistente tramite il miglioramento della qualità del suolo e la valorizzazione della biodiversità urbana, producono infatti azioni volte a mitigare in maniera considerevole gli effetti delle isole di calore e a migliorare notevolmente la gestione delle acque piovane.
Infatti, ad esempio, la pratica del depaving, letteralmente “de-pavimentare”, riconosciuta come vera e propria nature-based solution, che punta a ridurre il cemento e l’asfalto nelle aree urbane, soprattutto quelle prive di utilità, ripristinando il terreno e lasciando spazio a piante, alberi e natura, contribuisce a rendere le città più salubri, fresche e sicure, riducendo il rischio di allagamenti e favorendo la “spugnosità” delle città, oltre a offrire ombra preziosa contro le ondate di calore, migliorando anche il benessere psicologico dei cittadini.
Per quanto riguarda invece il mantenimento e il rafforzamento della biodiversità urbana, il “verde pensile”, ad esempio, potrebbe avere un ruolo fondamentale. Si pensi alla realizzazione di ecosistemi sulle coperture degli edifici dove la biodiversità (vegetale e animale) può (ri)trovare il suo spazio, indisturbata dalla presenza dell’uomo, unitamente alla creazione di corridoi ecologici continui, utili a facilitare lo spostamento di impollinatori e pipistrelli attraverso il tessuto cittadino. Questa rete di connessioni ecologiche, però, non può fermarsi ai margini del suolo pubblico. Per garantire una reale efficacia, è necessario coinvolgere anche i soggetti privati, inserendo indicazioni specifiche all’interno dei PUG.
Condizione fondamentale risulta essere un lavoro sistematico di rilevamento dello stato di fatto del patrimonio arboreo, nuovo e preesistente, e, se possibile, del sistema di biodiversità.
Infatti, un censimento di tipo innovativo, realizzato tramite tecnologie satellitari e intelligenza artificiale, permette di mappare l’intero patrimonio arboreo pubblico e privato presente nel territorio, metodologia che, pur non sostituendo il rilievo tradizionale, consente di individuare criticità e anomalie attraverso indicatori fisiologici (come la traspirazione e l’attività fotosintetica), offrendo una visione complementare e strategica per la gestione del verde. L’integrazione del monitoraggio satellitare nel sistema gestionale del verde urbano rappresenta un’innovazione metodologica orientata alla valutazione delle prestazioni ecosistemiche del patrimonio arboreo. A partire dalla definizione di una baseline, il sistema consente di controllare in modo continuativo, e da remoto, lo stato fisiologico degli alberi su scala urbana.
Questo approccio permette di valutare l’efficacia degli interventi manutentivi: una volta effettuata una riqualificazione su un viale alberato, ad esempio, è possibile verificare nei mesi successivi, attraverso dati satellitari, se la prestazione del verde, intesa come capacità di raffrescamento, traspirazione e regolazione microclimatica, sia migliorata o peggiorata. In questo modo, il verde viene trattato come un’infrastruttura tecnica, soggetta a verifica funzionale al pari di un sistema di isolamento o di climatizzazione.
La città risulta essere ormai un evento prettamente tecnologico oltre che estetico. Non esiste bellezza senza tecnica. Per pensarlo e progettarlo è necessario predisporre di competenze illuminate.
*architetto Roberto Pertosa
Bentornato,
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