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Restanza, ritornanza e anche mescolanza per una sana integrazione

Facendo riferimento a una trattazione compiuta sul tema dell’integrazione è giusto evidenziare l’introduzione, nella nomenclatura linguistica, di neologismi conferenti il fenomeno e di estrema importanza, oltre ad essere esemplificazione plastica di un mondo globalizzato. Si parla di «restanza», invocando l’assoluta necessità di trattenere, sul territorio natio, i nostri giovani, dando contezza di sedimentazione delle radici e fornendo una dimensione prospettica all’insegna della permanenza e della crescita. Tuttavia, parere meramente personale, si dovrebbe parlare di auspicabile «ritornanza», in quanto non si può presupporre di privare i nostri ragazzi dell’opportunità di vivere esperienze costruttive al di fuori del proprio territorio, a prescindere. Sarebbe plausibile, nell’ambito della più estesa tutela del diritto alla scelta che gli stessi, dopo aver acquisito esperienza extra- moenia, decidessero, liberamente, di rientrare nella propria terra per ottimizzare le competenze acquisite, mettendo le stesse a disposizione della propria comunità.

In provincia di Foggia, dove il Tavoliere si stende tra memorie contadine e orizzonti industriali mai del tutto realizzati, il tema della restanza si intreccia con quello della diminuzione demografica come due corde della stessa lira: vibrano insieme, ma non sempre all’unisono.

Restare non è soltanto un verbo geografico, è una scelta di senso, un atto d’amore verso la propria terra. Eppure, non può e non deve diventare una cogenza, un dovere morale imposto in nome di un’idea nostalgica di appartenenza. Ai giovani non si devono tarpare le ali, ma donare le condizioni affinché il volo – che sia verso la permanenza o la partenza – sia libero e consapevole, non precludendo il ritorno.

Oggi, la Capitanata paga il prezzo di un decremento demografico vertiginoso, probabilmente, perché si è dispersa la magnificenza del sogno, ovvero la speranza di poter costruire qualcosa sul proprio territorio, seguendo le proprie ambizioni, le proprie propensioni, le proprie scelte e, di inverso, propendendo per una trasmigrazione indiscriminata verso altri lidi, alla ricerca della felicità, nella mancata consapevolezza che si è figli della stessa terra e, spesso, i confini e le mete sono idealizzate nella mortificazione di una speranza svanita. La delusione miete disorientamento e non soluzioni, in quanto la prospettiva non ha territori, ma, è insita nella pervicacia del desiderio.

La titubanza nel mettere su famiglia provoca risentimento e interrompe ogni nobile continuità rispetto ad una comunità da arricchire e non da impoverire, non soltanto dal punto di vista numerico.

Il decremento demografico in provincia di Foggia non è solo una questione di numeri, ma, è il sintomo di un ecosistema che non riesce più ad attrarre, a trattenere, a generare opportunità, almeno nell’accezione della percezione. Ma non può essere letto solo come un destino ineluttabile o come un male assoluto. Ogni territorio, attraversato dallo spopolamento, è anche un territorio in cerca di una nuova identità, e in questo processo l’arrivo di nuovi abitanti – i migranti, i nuovi cittadini, «i diversamente italiani» , come amorevolmente definiti da Papa Francesco – può diventare un’occasione di rigenerazione, non di conflitto. Di guisa, un sano equilibrio determinato dalla «mescolanza», pone le basi di uno sviluppo ecosostenibile e umanizzante.

La mescolanza, in questo senso, è il naturale completamento della restanza. Non è la sua negazione, ma la sua evoluzione. Restare oggi, in Capitanata, significa anche saper convivere con l’altro, accettare che il futuro della nostra terra si costruirà insieme a chi viene da lontano e nel rispetto delle regole, dalle quali non si prescinde.

Tuttavia, questo ideale si infrange troppo spesso contro le barriere materiali e morali dei ghetti rurali, luoghi di invisibilità e sfruttamento che negano ogni principio di integrazione. Finché quelle distese di lamiere e baracche continueranno a esistere e resistere oltre il concepimento di una umana esistenza, non potremo parlare davvero di mescolanza, ma solo di segregazione funzionale a un’economia sommersa che smentisce ogni discorso sulla dignità del lavoro e della persona.

Perché la restanza diventi una scelta e la mescolanza una ricchezza, serve una politica territoriale nuova, capace di superare la retorica e di costruire infrastrutture, formazione, cultura d’impresa e welfare di prossimità, oltre ad una esaltante emancipazione civica. Non vi è sviluppo in presenza di ritrosia prospettica. Bisogna restituire ai giovani la possibilità di decidere, non di subire. Chi resta deve poterlo fare perché qui trova senso, valore e prospettiva; chi parte deve poterlo fare sapendo che può tornare. E chi arriva deve poter contribuire, non essere escluso. D’altronde, questo ‘ paradigma’ rappresenta, in maniera estremamente semplificata, quel progetto sociale, più volte ribadito, ascrivibile alla «genialità» dei nostri Padri Costituenti, nel costrutto primario della nostra Legge fondamentale.

Solo così, tra restanza e mescolanza, potrà nascere una Comunità capace di guardare avanti e divenire una terra che non teme la perdita, ma che trova nella contaminazione umana ed economica la sua più autentica occasione di rinascita, nel pieno rispetto delle statuizioni normative e deprecando ogni spiraglio di illegittimità.

La «mescolanza», oltre a costituire mera innovazione linguistica, costituisce linfa e sostegno a forme di relativismo virtuose che oltrepassano la rigidità e la cogenza di un assolutismo bieco, il quale rende ibrido ciò che agli occhi dell’umanità deve essere nitido, onde evitare fenomeni eversivi che determinerebbero, non una sana condivisione e/o ‘ mescolanza’, ma una malsana belligeranza.

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