«Piazze piene, urne vuote». Chissà se la sinistra più radicale del grande corteo per Gaza di Roma e quella maggiormente riformista della contemporanea manifestazione di Milano (nell’occasione allargata a Renzi e a Calenda, tornati miracolosamente assieme per un momento), rivolta ad invocare la pace in Palestina, ma con una sponda anche ai democratici di Israele, si saranno ricordate – mentre festeggiavano perché tanti avevano risposto alle chiamate a mobilitarsi – queste amare parole di Pietro Nenni, pronunciate all’indomani del 18 aprile 1948.
Per i referendum abrogativi di questa tornata è accaduto lo stesso. Sottoscriverli (cosa ora possibile anche online dal computer di casa) non costava nulla e questo avrà illuso qualcuno, abbagliato dal grande numero di firme raccolte per chiederli, ma muoversi per andare effettivamente ai seggi è ben altro. In un momento geopolitico ed economico complicato, aprire a una più facile concessione della cittadinanza agli stranieri legalmente residenti in Italia da anni e a ritocchi della legislazione sul lavoro simbolicamente forti, ma tecnicamente astrusi per i più, è evidentemente parso troppo rischioso a più italiani di quanti si aspettassero Landini, Schlein, Conte e i “gemelli” di Alleanza Verdi e Sinistra, né i sostenitori delle due piattaforme si sono del tutto sommati tra loro, come mostrano le deludenti percentuali di partecipazione al Sud, dove è più forte il Movimento Cinque Stelle e invece maggiore affluenza ai seggi nelle tradizionali “regioni rosse”.
C’è dunque da riflettere sul merito di questo risultato e sulla ridottissima capacità di persuasione che i promotori hanno mostrato persino verso pezzi dell’elettorato di riferimento: con questi numeri, la sconfitta brucia come le ultime dell’Inter e della Nazionale di calcio, né si è venduta cara la pelle come Sinner ed è un trucco contabile che somma i sì e i no dire che hanno votato più persone di quelle che scelsero il centrodestra alle elezioni del 2022.
C’è inoltre da meditare anche sulla tenuta negli anni dello strumento impiegato allo scopo. Il referendum è strumento troppo delicato perché ne sia semplice l’innesto in una democrazia essenzialmente parlamentare, insomma non svizzera e potenzialmente tossico per l’esposizione alla manipolazione populista, nonché ingannevolmente semplificatore: nessun problema della vita può risolversi con un sì o con un no, anche quando si chiede ufficialmente a qualcuno o a qualcuna se voglia prendere un marito o una moglie la risposta più seria sarebbe “sì, ma”.
Dal 1946 ad oggi se ne sono svolti 83, di cui uno istituzionale, quattro costituzionali, uno di indirizzo e 77 abrogativi. Interrogato su quesiti chiari, il corpo elettorale ha risposto in massa, mentre non l’ha fatto quando ha avuto la sensazione che si volesse strumentalizzarlo per regolare conti interni alla classe politica, cioè sottoporgli non questioni di principio, ma troppo tecniche per farle risolvere da chi non ne aveva competenza, o farlo salire “su treni con più vagoni agganciati”, ossia rivolgergli domande accorpate, contando che quelle più sentite guadagnassero il quorum anche per tutte le altre. La reazione alla “manipolazione” è stata – per i referendum con previsione di una soglia di validità, dunque non per tutte le consultazioni – l’invito ad astenersi per non farlo raggiungere e non solo di votare contro l’abrogazione della legge posta sotto esame.
Da tempo numerosi studiosi suggeriscono di innalzare il numero di firme occorrenti per chiederne l’indizione e di abbassare il quorum di validità al numero di votanti effettivi nelle elezioni politiche precedenti, o anche di anticipare il vaglio di ammissibilità della Corte Costituzionale durante la raccolta delle firme, il che però politicizzerebbe la Consulta ancora di più di quanto le sia rimproverato. Suona comunque chiaro un campanello d’allarme: anche la vicenda del referendum appena celebrato certifica l’enorme distacco tra molta parte della classe politica e la sua effettiva capacità di interpretare e soddisfare i bisogni più comuni.
Bentornato,
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