Mentre il dibattito sull’autonomia differenziata procede inesorabilmente verso le sue tappe finali tra l’indifferente sicumera dei promotori e la rabbia impotente degli oppositori, altri dati, questa volta elaborati dalla Svimez, confermano le previsioni sul divario tra le regioni del Centro-Nord e del Sud.
Il rapporto, presentato ieri nella sede romana della Svimez, presenta uno scenario certamente non positivo dell’economia italiana nei prossimi anni.
Il mix di politiche fiscali e monetarie messo a punto per far fronte all’emergenza provocata dallo shock pandemico ha avuto, secondo il Rapporto, effetti positivi, limitando l’ulteriore allargamento dei divari territoriali. Ma il rientro dall’emergenza da un lato e la eccezionale fiammata inflazionistica del 2022-23, dall’altro, hanno mutato radicalmente le policy dell’Unione Europea, orientando la politica monetaria in senso restrittivo (con l’aumento dei tassi di interesse) e ripristinando la rigida disciplina di bilancio prevista dal nuovo Patto di Stabilità (sottoscritto dal nostro governo).
Per il prossimo biennio lo studio Svimez prevede una crescita contenuta del Pil. Si confermerebbe così la crescita debole che ha caratterizzato la dinamica economica del nostro paese nell’ultimo ventennio. In questo quadro di stagnazione l’area più competitiva del paese si concentra tra Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, che sono proprio le tre regioni a capo, anche se in modo diverso, del movimento a favore dell’autonomia differenziata.
Sono tre regioni orientate all’esportazione con un apparato produttivo che è riuscito a compensare il vincolo del ristagno della domanda interna con un’accresciuta penetrazione nei mercati esteri. La performance in termini di Pil ottenuta nel ventennio da queste regioni è stata brillante, con una variazione di + 14,5% della Lombardia, di +14,3% dell’Emilia-Romagna e di +10,4% del Veneto. Opposto il dato per le regioni meridionali, nello stesso ventennio la migliore performance è stata della Puglia con una contrazione del Pil pari a -1,7%, seguita dalla Campania con -4,9% per giungere al crollo della Sicilia (-9,3%) e della Calabria (-11,5%).
Per una classe politica non più abituata a ragionamenti complessi è facile trarre la errata conclusione che le regioni meridionali agiscano come una zavorra rispetto alle regioni più dinamiche rallentando il Paese. Le previsioni dello studio della Svimez confermano che le tre regioni più forti continueranno la performance positiva: ciò dipende da una struttura produttiva in grado di catturare quote relativamente maggiori di domanda, sia per le esportazioni che per le cosiddette Kis (Knowledge Intensive Services) cioè le attività terziarie più moderne con un elevato contenuto di conoscenza. La possibilità di tenuta delle regioni meridionali è affidata interamente alla spesa delle famiglie (essenzialmente in servizi) e alla spesa pubblica, in particolare quella prevista dal Pnrr. E proprio sul fronte del Pnrr le previsioni per il Sud non sono molto positive: in seguito alle recenti modifiche apportate la quota di finanziamenti destinata al Sud si attesterebbe ora al 37,7%, un valore inferiore alla “clausola del 40%” a favore delle regioni del Mezzogiorno.
Nonostante l’aumento della dotazione finanziaria complessiva del Piano (da 191,5 miliardi di euro a 194,4 miliardi) per il Mezzogiorno si ridurrebbero le risorse disponibili dai 75,1 miliardi di euro a 70,6 miliardi. E neppure è positiva la scelta di orientare il 57% delle risorse originariamente destinate al finanziamento di infrastrutture verso interventi di sussidio a favore delle imprese, per la loro maggiore flessibilità concessa dalla Commissione europea; una scelta che rischia di penalizzare i territori meridionali che hanno una capacità imprenditoriale meno diffusa e matura. Ancora una volta quindi le scelte liberiste del governo peseranno negativamente sul futuro delle regioni meridionali.
Rosario Patalano è economista
Bentornato,
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