Ci sono fatti che più di altri, in modo quasi simbolico, segnano il tempo della storia. Forse per la loro drammaticità, forse per il coinvolgimento di tutti noi, forse perché marcano una cesura nella vita di un Paese creando un prima e un dopo: l’omicidio di Aldo Moro questo è stato nella storia recente dell’Italia.
Le immagini della strage della scorta, quelle della lunga prigionia dell’ex presidente della Democrazia Cristiana e infine quella tetra e dolorosa del suo corpo esanime nel bagagliaio di una Renault 4 ritrovata in via Caetani, a Roma, hanno cambiato per sempre la storia del nostro Paese. Immagini che sono il simbolo degli “anni di piombo” in Italia.
Il 16 marzo 1978, a Roma, Aldo Moro – docente di Diritto penale, ex membro dell’Assemblea costituente nel 1946 e deputato dal 1948, presidente della Democrazia Cristiana, cinque volte capo del governo – come ogni mattina, lasciò il suo appartamento e salì in auto con gli uomini della sua scorta. Poco dopo le 9 del mattino, all’altezza di via Fani, il corteo fu fermato da un commando composto da cinque uomini delle Brigate Rosse che si affiancò alle auto e aprì il fuoco. Cinque militari – due carabinieri e tre poliziotti – vennero uccisi. Raffele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi: questi i nomi degli uomini della scorta uccisi nell’agguato in cui vennero esplosi oltre 90 colpi di arma da fuoco. Moro, unico sopravvissuto alla strage, fu sequestrato e poche ore dopo, con rivendicazioni contemporanee a Roma, Milano e Torino, le Brigate Rosse comunicarono il suo rapimento. Cominciava un dramma che durò 55 giorni, punteggiato di silenzi e comunicati delle Br e segnato dal drammatico dibattito interno alla Dc: accettare o rifiutare una trattativa con i terroristi?
Aldo Moro, nei giorni della prigionia, scrisse 86 lettere. Erano indirizzate a familiari, a papa Paolo VI (amico personale di Moro che si appellò ai brigatisti più volte per la liberazione dicendo di essere pronto a mettersi in ginocchio) e a colleghi di partito per aprire una trattativa. L’ultimo comunicato dei terroristi, il numero nove, arrivò il 5 maggio. Annunciava la conclusione del processo popolare a carico dello statista: «Concludiamo la battaglia cominciata il 16 marzo, eseguendo la sentenza». Quattro giorni dopo il suo corpo sarà ritrovato a via Caetani. Una strada scelta con cura: situata a identica distanza dalle sedi del Pci e della Dc.
La famiglia Moro rifiutò ogni celebrazione ufficiale: nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso, nessun lutto nazionale né funerali di Stato o medaglia alla memoria. Il giorno del rapimento dello statista era speciale. Alle 10 di mattina era previsto il voto di fiducia per la nascita di un governo che, per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, sarebbe stato sostenuto da una maggioranza allargata anche al Partito comunista italiano.
* Presidente della seconda sezione penale del Tribunale di Bari













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