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Quella rabbia che inquina le relazioni

La violenza sportiva è un comportamento disfunzionale, che arreca danni e che si verifica al di fuori delle regole e degli obiettivi stessi dello sport. Negli ultimi periodi c’è stato un aumento sia della frequenza che della gravità degli atti di violenza. La violenza è più diffusa negli sport di squadra da contatto. Notevoli ricerche sono state fatte sulla violenza degli spettatori che incitano appunto alla violenza.

I mass media contribuiscono all’accettabilità dell’aggressività attraverso esempi negativi riportati in tv, radio, riviste e così via.

L’aggressione violenta nello sport può essere spiegata attraverso tre teorie:

  1. La teoria biologica che considera l’aggressività come una caratteristica fondamentale umana e vede lo sport come un modo socialmente accettabile di scaricare l’aggressività accumulata. È evidente che nel momento in cui l’aggressività si trasforma in violenza diretta verso cose o persone, non è più comportamento disfunzionale, ma reato;
  2. La teoria psicologica che afferma che l’aggressività è causata dalla incapacità di gestire la frustrazione, intendendo come tale l’impossibilità di raggiungere i propri obiettivi attraverso i propri sforzi che possono risultare insufficienti o possono essere bloccati, innescando così un comportamento aggressivo. Nello sport la frustrazione può essere causata da chiamate discutibili da parte degli arbitri, incapacità di eseguire adeguatamente una giocata, infortuni che possono interferire con prestazioni ottimali, lamentele degli spettatori o insulti da parte di allenatori o giocatori;
  3. La teoria dell’apprendimento sociale sostiene che il comportamento aggressivo viene appreso tramite ricompense e punizioni. I giovani atleti prendono gli eroi dello sport come modelli per cui sono proprio gli allenatori, le personalità giuste per l’introduzione di atteggiamenti positivi nello sport. Bisognerebbe insegnare ai giovani che la vittoria non deve essere enfatizzata a tutti i costi, ma il vero obiettivo dello sport dovrebbe essere il divertimento, lo sviluppo delle capacità sociali e del senso di appartenenza alla squadra e non certo l’individualismo. Allo stesso modo di estrema importanza sarebbe coinvolgere i genitori in un processo educativo per i loro figli di gestione delle emozioni e del rispetto verso gli altri nell’accettazione dei propri limiti.

È evidente che le emozioni provocate durante un evento sportivo possono favorire le condotte aggressive solo se queste fanno già parte del repertorio comportamentale della persona, tifoso o giocatore che sia. L’aggressività può spesso sembrare una condizione imprevedibile e non provocata, ma esiste sempre una ragione per essa. Gli episodi di violenza verificatisi in ambito sportivo in questi ultimi periodi, vanno solo ad inquinare l’idea dello sport in generale con tutti i valori che esso rappresenta, correttezza, sacrificio, dovere, disciplina ed altruismo.

È quindi necessario generalizzare il concetto di violenza nello sport considerando, nella società moderna, un livello di rabbia, rancore e risentimento che caratterizza le persone, sia sul piano familiare che personale e lavorativo e notare quanto le relazioni quotidiane con amici, parenti, compagni di scuola, di squadra o compagni di lavoro siano improntate ad una sempre maggiore insofferenza verso l’altro e una aggressività latente che cerca solo l’occasione per esplodere. Se gli adulti sono questi, come possiamo aspettarci dai ragazzi? Sono gli adulti che non funzionano più come modelli educativi corretti e questa società altamente competitiva, ovviamente, favorisce le sconfitte e porta ad un forte incremento dell’aggressività e della violenza.

Mariangela Pascali è direttrice del SerD Copertino, Nardò e Campi Salentina

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