L’antagonismo tra profitti e salari, che molti hanno prematuramente considerato un residuo ideologico ormai superato, in realtà si conferma come un elemento centrale della dinamica di sviluppo del capitalismo. Accade soprattutto in Italia. Negli ultimi trent’anni, le riforme del mercato del lavoro hanno fortemente avvantaggiato le imprese, introducendo meccanismi di flessibilità che si sono tradotti in una drastica riduzione dei salari e dei diritti.
Senza rendere più competitiva l’economia, che registra ancora un deficit di produttività e di capacità innovativa. Il risultato è stato un continuo aumento dei margini di profitto a fronte di una drastica riduzione dei salari reali. Una dinamica che si è ulteriormente rafforzata con l’inflazione: secondo i dati Istat (maggio 2023), la quota dei profitti è cresciuta dell’1,9% tra il terzo e il quarto trimestre del 2022 e del 3% in più rispetto al quarto trimestre del 2021.
Il picco di inflazione è dovuto proprio alla crescita dei margini di profitto delle imprese, mentre la dinamica dei salari è stata molto moderata: tra dicembre 2021 e dicembre 2022 i salari sono aumentati in media dell’1,5%, con un incremento più sostenuto nella pubblica amministrazione (2,8%) e molto più contenuto nel settore privato (1,5% nell’industria e solo dello 0,6% nei servizi privati, dove sono impiegati gran parte dei lavoratori).
Non si può negare quindi che i lavoratori italiani, indeboliti nei loro diritti, sono anche drasticamente impoveriti: i working poor, cioè coloro che pur avendo un regolare contratto non escono dalla condizione di povertà, rappresentano l’11,8% dei lavoratori italiani (dati Eurostat), mentre diffusissime sono le forme di precarietà (3 milioni 175 mila sono i contratti a termine), e il tasso di disoccupazione giovanile, tra 15 e 24 anni, peggiora ulteriormente e sale fino al 21,7% con un aumento 0,9 punti. In questo quadro, l’introduzione di un salario minimo potrebbe essere il primo segno di una inversione di tendenza, riequilibrando parzialmente l’asimmetria di posizioni che caratterizza il mercato del lavoro. È opportuno ricordare che il salario minimo è adottato da 22 paesi dell’Unione Europea: il Lussemburgo ha fissato il limite più elevato con circa 14 euro orari, intorno ai 12 in Germania e Belgio, circa 11 in Irlanda, Francia e Paesi Bassi, Spagna e Slovenia, le tariffe orarie sono di poco inferiori a 7,50 euro, e circa 5 euro, in Lituania e paesi del Mediterraneo (Portogallo, Cipro, Malta, Grecia), chiudono Repubblica Ceca, Estonia, Polonia e Slovacchia, con circa 4 euro e in coda a Bulgaria con 2,40 euro. Solo Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia, non hanno ancora predisposto strumenti analoghi, ma questi paesi hanno strutture del mercato del lavoro molto diverse da quella italiana.
La proposta di legge recentemente presentata in Parlamento da vari partiti dell’opposizione di centro-sinistra, dovrebbe fissare il salario minimo in Italia a 9 euro. Un intenso dibattito sull’opportunità di adottare tale misura nel nostro paese si è acceso tra le forze politiche e le parti sociali, gli stessi sindacati sono scettici, in quanto, a loro avviso, il salario minimo de jure potrebbe indebolire il loro potere contrattuale e appiattire le remunerazioni verso il basso. In realtà la definizione di una salario minimo non solo aumenterebbe, piuttosto che diminuire la forza contrattuale del sindacato, ma costituirebbe un fondamento per le politiche di welfare.
Il reddito di cittadinanza ha avuto effetti distorsivi sul mercato del lavoro semplicemente perché non era accompagnato da una norma sul salario minimo che doveva incentivare il lavoro a scapito della mera assistenza. Il reddito di cittadinanza è stato quindi una misura di welfare monca. Inoltre, l’adozione del salario minimo potrebbe favorire accordi sindacali finalizzati all’aumento della produttività, così come indica la nota teoria dei salari di efficienza, laddove l’aumento del salario oltre i livelli minimi è un incentivo a conseguire livelli più elevati di produttività ed efficienza dei lavoratori. La presenza di una salario minimo fissato per legge, una misura che dovrebbe essere resa effettiva da controlli più severi da parte dell’ispettorato del lavoro (senza i quali la legge non avrebbe forza), estenderebbe poi il diritto alla minima retribuzione nei settori non coperti dalla contrattazione collettiva sindacale, in gran parte coincidenti con l’area del precariato, che è particolarmente estesa al Sud. Chi sostiene che il salario minimo svantaggerebbe ulteriormente la competitività del Mezzogiorno, sbaglia del tutto, poiché i disincentivi ad investire sono dovuti principalmente all’assenza di infrastrutture, alla criminalità diffusa, alle condizioni disastrose della scuola, alla burocrazia inefficiente e alla inadeguatezza della classe politica, e non certo al salario. La tendenza di sviluppo del capitalismo italiano negli ultimi trent’anni è andata nella direzione di considerare la forza lavoro come una merce, alla stregua di una voce di costo da comprimere, è questo ha favorito diseguaglianze e arretratezza tecnologica. E non sarà certamente questo governo ad invertirla.
Rosario Patalano è economista