Quei poveri di serie A e di serie B

Non bastavano le disuguaglianze che da decenni dividono gli italiani in ricchi e poveri. A questa storica e cronica divaricazione si aggiunge quella creata dal decreto Lavoro varato dal governo Meloni e appena pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Per superare il meccanismo del Reddito di cittadinanza, infatti, la norma distingue tra “poveri di serie A” e “poveri di serie B”, peraltro senza risolvere l’annoso problema dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro che pesa come un macigno soprattutto al Sud. Il paradosso è evidente. Il Reddito di cittadinanza è sostituito da due nuove misure, l’Assegno di inclusione (Adi) e lo Strumento di attivazione al lavoro (Sda). Il primo è destinato a poveri che vivono in famiglie con minori, over 60 e disabili; per gli altri c’è il secondo che, tuttavia, dura soltanto 12 mesi e non assicura un’esistenza dignitosa. Basta fare due calcoli: a una persona sola che non dispone di adeguate risorse economiche e vive in affitto, l’Adi garantisce 780 euro, mentre lo Sda non va oltre i 350.

A questa sperequazione si aggiunge un equivoco: lo Sda è destinato agli “occupabili”, cioè a coloro i quali sono in condizione di trovare lavoro; questo concetto, però, è definito soltanto in base alla composizione del nucleo familiare e senza alcun riferimento a competenze e storia occupazionale. Se le persone indigenti non vengono definite in base alla maggiore o minore possibilità di trovare un impiego, tuttavia, non ci si potrà aspettare che esse trovino rapidamente un’occupazione.

Insomma, il decreto Lavoro abolisce quel diritto ad avere una vita decente che, invece, quasi tutti gli altri Paesi europei garantiscono ai poveri in quanto tali collegandolo al dovere di compiere ogni sforzo utile per trovare un’occupazione. In Francia funziona così dal 1988, in Gran Bretagna addirittura dal 1948. Altrettanto preoccupante, però, è il fatto che il nuovo decreto incida poco sull’incontro tra domanda e offerta di lavoro. È soprattutto qui, d’altra parte, che il Reddito di cittadinanza ha fallito.

Dati Anpal alla mano, dei circa 920mila beneficiari del sussidio solo 173mila risultano occupati; il 73% non ha visto un contratto di lavoro prima di giugno 2022; quelli che hanno trovato un’occupazione vivono al Centro-Nord nel 27-31% dei casi e al Sud solo nel 18,6; più del 57% di chi percepisce il Reddito non dispone di un profilo attivo di ricerca del lavoro. E i navigator, cioè i soggetti che avrebbero dovuto accompagnare i beneficiari del Reddito nella ricerca di un impiego, sono ormai meno di mille.

Che fare, dunque? Indispensabile sarebbe innanzitutto un ritorno all’universalismo. Più concretamente, bisognerebbe trasformare l’Adi in una misura prevista per tutti i poveri, facendo dello Sda uno strumento volto a rafforzare le competenze professionali e riservato a chi ha la possibilità di trovare un’occupazione entro un certo termine. Parallelamente, per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, sarebbe utile l’attivazione di una piattaforma online sulla quale i percettori di Reddito potrebbero registrarsi indicando le proprie competenze e disponibilità, mentre le aziende potrebbero indicare le rispettive esigenze in termini di personale, con possibilità di contattare e ingaggiare direttamente i disoccupati, magari con l’obbligo di assumerli dopo un periodo di prova, in completa trasparenza e nel pieno rispetto della legge.

Un network così strutturato, molto simile ai portali di intermediazione che oggi popolano il web, riuscirebbe laddove i navigator hanno fallito. È di strategie simili che l’Italia e il Sud hanno bisogno. Non certo di ulteriori sperequazioni.

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