Esiste un sessismo delle parolacce; un sessismo decisamente squilibrato in senso misogino, che riflettendo strutture di potere patriarcali rivela astio e avversione verso le donne. Si manifesta in diversi modi: termini come puttana, vacca, troia, zoccola, racchia, culona, rifatta, cessa, implicano tutti che la sessualità e il corpo femminile siano qualcosa di vergognoso, mentre gli equivalenti maschili hanno connotazioni meno negative o addirittura positive, come ad esempio uomo disponibile, uomo facile, accompagnatore, playboy, dongiovanni.
Troia, puttana e sinonimi non si declinano al maschile. Un insulto di pari portata, rivolto a un uomo, potrebbe essere: “figlio di troia”, “figlio di puttana”, ma anche in questo caso è ben chiaro che un’offesa del genere, prima e più del destinatario, colpisce un’altra donna. Anche espressioni apparentemente più deboli, usate per offendere un uomo, tipo “sei una femminuccia”, “piangi come una donnicciola”, suggeriscono che la femminilità sia sinonimo di fragilità e inadeguatezza.
È un dato di fatto che oggi l’insulto sessista stia diventando “normale”, di quella normalità che consiste nell’abitudine di compiere atti malvagi, spesso quasi per abitudine o per becero conformismo; quella “normalità che Hannah Arendt avrebbe definito “La banalità del male”. Ad essere colpita più sensibilmente è sempre la donna, persino in contesti istituzionali o nei luoghi di lavoro, mettendo in luce la persistenza delle disuguaglianze di genere, nonostante gli indiscutibili progressi compiuti in questi ultimi anni in termini di diritti e parità.
Quando, per esempio, una donna assume un ruolo autorevole, può capitare che sia destinataria di insulti ridicolizzanti o sminuenti, come “arpia”, “strega”, “zitella isterica”, riflettendo l’idea che le donne dovrebbero essere sempre remissive e accondiscendenti. Il sessismo attraverso la lingua penetra così tanto nel subconscio delle persone, fino a dimenticare i suoi connotati di violenza, aggressione, umiliazione, quale invece è. Colpire qualcuno nel sesso fa parte dei più insolenti colpi bassi; è una sentenza senza processo. Gli insulti sessisti sono prima di tutto insulti: servono a svilire un’altra persona, ad ucciderne l’autostima, a farla sentire anormale, esclusa, emarginata. Nelle parolacce e invettive varie le vittime preferite, destinatarie di sconce qualificazioni e accostamenti vernacolari, sono sempre le donne e i loro famigliari, come ad esempio: “à la f…. d’ mamm’ta”; à la f…. d’ sòrda (più raramente d’ z’jàn’ta) o più semplicemente, …. à-ssòrda! (i sottintesi, fra i più svariati, sono facilmente intuibili); n’… a mmamm’ta (o n’… à ssòrda). E così nelle imprecazioni d’ogni giorno: porca vacca! porca troia! porca puttana! C’è un’assoluta asimmetria di genere. Non capita quasi mai, per esempio, di ascoltare frasi del tipo: “al cornutazzo d pat’t!”, “a li corna d frat’t! oppure “n’… a ppàt’t!” Come pure nelle imprecazioni non capita mai di sentire espressioni del tipo: porco toro! Porco troio! Porco cornuto.
Il linguaggio non è neutro. Per combattere il sessismo linguistico è necessario prendere consapevolezza come le parole possano creare o rafforzare pregiudizi e perseguire, di conseguenza, alternative rispettose. Se proprio uno ha necessità di esprimere frustrazione o rabbia, può sforzarsi di usare parole neutre, che non abbiano riferimenti al genere, come per esempio mannaggia, cavolo, accidenti; invece di dire “sei una strega”, è meglio dire “sei una persona scorretta”, così come si possono usare espressioni più ironiche o dialettali non sessiste e meno aggressive. A proposito di dialetti, specie il Sud Italia, ha a disposizione un ricco repertorio di espressioni colorite che permettono di esprimere fastidio, rabbia o disprezzo in modo ironico, senza ricorrere a insulti sessisti. Ogni regione ha il suo repertorio di “perle” linguistiche, spesso molto più efficaci e divertenti degli insulti nell’italiano standard. Qualche esempio? Va a piglià ‘o fresco! (Campania); Scì mangh lu fierru s cangia facc! (Puglia); Mi pari ‘na ficudinia! (Sicilia); Ma chi si muzzicatu ‘na zinna? (Calabria). È un dato di fatto che tali insulti espressi in dialetto risultano spesso più efficaci e incisivi, se non altro perché fanno leva su un immaginario collettivo consolidato e forse anche perché al contrario delle offese in italiano, godono di una sorta di licenza culturale, che tende ad attenuarne l’impatto offensivo, oltre che permettere una più simpatica immediatezza espressiva.