Quale futuro attende il nostro Made in Italy?

Un liceo dedicato, una certificazione distintiva, contributi economici e persino una giornata nazionale già fissata per il 15 aprile: sono solo alcune delle misure contenute nel testo, promosso dal ministro Adolfo Urso, con il quale il governo Meloni intende sostenere il Made in Italy. Un nobile intento, per carità, che però non deve distogliere l’attenzione dalle reali esigenze delle imprese italiane, a cominciare da quelle attive al Sud e nel settore manifatturiero: meno burocrazia, servizi di qualità e una tassazione ragionevole.

Il testo al vaglio di Palazzo Chigi prevede innanzitutto l’istituzione del liceo del Made in Italy. L’obiettivo? Consentire ai giovani di “acquisire conoscenze, abilità e competenze approfondite nelle scienze economiche e giuridiche, all’interno di un quadro culturale che, riservando attenzione anche alle scienze matematiche, fisiche e naturali, consenta di cogliere le intersezioni tra saperi”. La descrizione è un po’ vaga e appare difficile comprendere che cosa gli studenti possano apprendere tra i banchi del nuovo liceo.

Non mancano, ovviamente, contributi e agevolazioni di carattere economico: 202 milioni per l’incentivazione del design e dell’ideazione estetica, 15 per l’imprenditorialità femminile, altri 15 per la consulenza alla brevettazione; poi ancora misure settoriali come i 60 milioni al settore vivaistico forestale, alle imprese boschive e alla filiera delle fibre tessili naturali. A ciò si aggiungono una fondazione, con una dotazione di 20 milioni, che dovrà occuparsi dell’Esposizione nazionale permanente del Made in Italy, e poi un fondo per l’informazione e sensibilizzazione. È evidente il rischio che le misure di sostegno si traducano nella solita distribuzione di mancette a questa o a quella categoria, sottraendo così risorse a interventi strutturali.

Ma il pericolo principale resta quello che Serena Sileoni e Carlo Stagnaro hanno opportunamente segnalato dalle colonne del “Foglio”: il testo utilizza il mito della tradizione per difendere interessi di bottega, non solo economici ma anche politici, dimenticando che il Made in Italy non è fatto solo di laboratori, ma anche e soprattutto di imprese manifatturiere che investono, producono, innovano, esportano e che, di conseguenza, hanno bisogno di altro. Di cosa? Meno burocrazia, innanzitutto: è inconcepibile che, per aprire e mantenere in vita un’attività, si debbano affrontare decine di adempimenti che non fanno altro che sottrarre tempo e risorse all’impresa?

Poi servizi di qualità: è concepibile che, nel 2023, due capitali del Sud come Napoli e Bari attendano ancora l’attivazione di alta velocità e alta capacità, con i sindaci costretti a “implorare” il Governo affinché istituisca, nel frattempo, un collegamento diretto? Infine meno tasse, perché è intollerabile che il 59% dei profitti delle imprese serva a saziare i robusti appetiti di uno Stato sempre più vorace. A tutto ciò si aggiunge un interrogativo: che cosa sta facendo il Governo per debellare la contraffazione dei prodotti italiani visto che questa piaga incide per quasi 7 miliardi, sottraendo profitti alle imprese e tasse allo Stato? Qualcuno chiederà: il testo del ministro Urso va accantonato, dunque? No, a patto di considerare certe misure come “ciliegina sulla torta”. Torta che, al momento, ancora non c’è.

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