La giornata politica di martedì è destinata a essere tra le più importanti della legislatura attuale. Nel giro di poche ore, infatti, è stata approvata, in prima lettura al Senato della Repubblica, la riforma costituzionale sul premierato. Poche ore più tardi è giunta al traguardo l’attuazione dell’articolo 116 della Costituzione sul regionalismo “differenziato”, che ormai è legge.
Nel primo caso siamo a un importante passaggio di un lungo iter che sfocerà probabilmente in un referendum costituzionale. Nel secondo caso, invece, si tratta di una legge ordinaria che sarà vigente entro pochi giorni e che rende il percorso del regionalismo differenziato disponibile alle Regioni che abbiano intenzione di intraprenderlo.
Sul piano strettamente politico, se si considera che la Lega incassa un risultato fondamentale mentre Giorgia Meloni dovrà attenere a lungo per l’agognato premierato, e se si aggiunge che il partito di Matteo Salvini chiede comunque modifiche al premierato, appare evidente che nella maggioranza si sono aperte delle contraddizioni. Ciò è di immediato interesse per il Mezzogiorno, in quanto come è noto alcune regioni settentrionali richiederanno quote di bilancio pubblico per gestire le nuove funzioni. Le garanzie chieste da Fratelli d’Italia, un partito che fin dal nome si richiama all’unità nazionale, si ritrovano solo in parte nel testo finale.
È però vero che la gestione della procedura di devoluzione di materie alle Regioni è saldamente nelle mani del Governo e ancor più del Presidente del Consiglio, dal momento che i più rilevanti atti, quelli di quantificazione delle risorse, saranno rivestiti della forma degli ormai noti Dpcm.
Il Parlamento è marginalizzato e ci sono molti aspetti negativi nella riforma. Ma ora la cosa più urgente appare interrogarsi sui rischi che corre il Mezzogiorno. La devoluzioni di materie legislative alle Regioni presuppone la misurazione dei fabbisogni delle stesse Regioni che dovranno vedersi girata una parte del gettito di imposte che attualmente vanno nelle casse statali per far fronte alle funzioni.
I dettagli saranno fissati nelle singole intese. Sulle potenziali ventitré materie lo standard dei diritti fondamentali uniforme sul territorio nazionale (i cosiddetti Lep) è stato definito, ma non finanziato effettivamente, in quattordici di esse.
Le Regioni del Sud sono oppresse dalla “spesa storica” e ottenere un fabbisogno quantificato con criteri giusti converrebbe, ma la legge ambiguamente afferma che il tutto avverrà “senza nuovi o maggiori oneri”.
In altre parole, e generalizzando un po’, le Regioni settentrionali sono in genere già sopra i fabbisogni e avranno i soldi (che rivendicano essere già loro, il famoso residuo fiscale, ovvero il gettito statale raccolto sul territorio). Le Regioni del Sud sono ampiamente sotto i fabbisogni e dovrebbero avere risorse fresche che evidentemente non ci sono o (impossibili) trasferimenti territoriali. Da qui l’importanza della circostanza che i Lep saranno appunto approvati con atto del Presidente del Consiglio dei ministri. La battaglia si giocherà lì.
Questo potrebbe essere rassicurante per il Mezzogiorno ma d’altra parte politicizza molto, e forse troppo, una scelta che avrebbe dovuto essere un “a priori” della riforma, formulata “sine ira ac studio” e non certo nel cimento di una disfida tra alleati.