Non c’è che dire: i dati sull’occupazione recentemente diffusi dall’Istat lasciano ben sperare, soprattutto per quanto riguarda la riduzione del precariato e la crescita del Mezzogiorno. Per quanto giustificata dalle statistiche, però, la soddisfazione manifestata dalla ministra Marina Calderone non deve distogliere l’attenzione da almeno tre problemi che restano irrisolti: bassa produttività, salari insufficienti e limiti della contrattazione collettiva.
Partiamo, come sempre, dai numeri. Secondo l’Istat, nel 2024 il numero degli occupati è aumentato di 352mila unità, mentre quello delle persone senza un impiego è calato di circa 283mila, con la conseguenza che il tasso di disoccupazione si è attestato al 6,5% diminuendo di oltre un punto rispetto al 2023. La prima nota positiva risiede nel fatto che l’impennata degli occupati è legata soprattutto al lavoro a tempo indeterminato, visto che il numero dei dipendenti permanenti è salito di oltre mezzo milione di unità e cioè del 3,3%.
Parallelamente, il totale dei dipendenti con contratto a termine è calato di 203mila unità, facendo segnare un crollo di quasi sette punti percentuali. La seconda nota positiva sta nella vitalità manifestata dal mercato occupazionale nel Centro e nel Sud del Paese. Da Roma in giù, infatti, il tasso di occupazione è cresciuto dello 0,8%, quindi in maniera più sostenuta rispetto al Centro e al Nord dove si sono registrati rispettivamente un aumento dello 0,3% e un calo dello 0,4.
Non solo: il calo del tasso di disoccupazione è stato più forte nel Mezzogiorno, dove ha sfiorato i tre punti percentuali a differenza di quanto accaduto nel Centro e al Nord, protagonisti di un calo rispettivamente dell’1,6 e dello 0,6%. Completano il quadro altre due incoraggianti statistiche. L’input delle imprese risulta in crescita, come dimostrano l’incremento del 2,3% delle posizioni dipendenti. E in salita del 3,4% è anche il costo del lavoro, a seguito dei miglioramenti stabiliti nei rinnovi contrattuali registrati nel corso del 2024. Tutte queste note positive, però, non devono far perdere di vista i nodi mai sciolti nel tessuto economico nazionale, a cominciare dai salari ancora troppo bassi. Anche su questo fronte abbiamo il conforto dei numeri: tra 2013 e 2023 gli stipendi sono cresciuti poco meno di 5 punti a fronte di un indice armonizzato dei prezzi salito di oltre 17, con la conseguenza che il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde è diminuito del 4,5%.
Qualcuno ha suggerito di risolvere questo problema introducendo il salario minimo legale, ma la strada maestra è e resta quella dell’incremento della produttività delle aziende. E qui veniamo alla seconda questione: le imprese italiane, in particolare quelle meridionali, sono troppo piccole per reggere il passo dei colossi internazionali e da decenni enormi difficoltà nel dotarsi di tecnologie e competenze oltre che ad accedere al credito bancario. E il contesto complessivo non le aiuta, se si pensa che la pubblica amministrazione italiana è inefficiente e rallentata da mille pastoie burocratiche.
Come se ne esce? Non solo favorendo le aggregazioni di imprese, facilitando il loro accesso al credito e garantendo servizi efficienti, ma anche rafforzando la contrattazione collettiva che resta il luogo in cui si compongono le ragioni della produttività con la tutela della persona che lavora. Anche qui, tuttavia, bisogna correggere una serie di storture: contrattazione al ribasso o condotta da sigle poco rappresentative, 600 accordi applicabili a non più di 500 lavoratori e altri cento che attendono il rinnovo da oltre dieci anni. Ecco, su salari, produttività e contrattazione resta molto da fare ed è bene che la politica ne sia consapevole: intervenire efficacemente su quei temi è indispensabile per migliorare relazioni industriali, performance delle imprese e vita dei lavoratori.