C’è un dato, nell’ultimo rapporto annuale recentemente presentato dall’Istat, che merita un’attenta riflessione: sono quei 420 miliardi che lo Stato ha sborsato per finanziare le prestazioni sociali nel 2023. La cifra è da capogiro, soprattutto perché spesa in un momento in cui l’occupazione aumenta. Questo vuol dire due cose. La prima: avanza il lavoro povero, con tante persone in difficoltà nonostante siano occupate. La seconda: il modello economico italiano non è sostenibile e va cambiato puntando innanzitutto sulla produttività.
Lo scenario, dunque, è chiaro. L’Italia si caratterizza per lieve crescita economica, aumento dell’occupazione e retribuzioni contenute. Lo Stato, di conseguenza, è costretto a sostenere i lavoratori in diversi modi, specialmente al Sud dove i redditi sono del 32% inferiori rispetto al Nord e l’inflazione, dopo la pandemia, è cresciuta più sensibilmente e rapidamente. Il problema sono i conti pubblici.
Però l’Italia ha il deficit più alto dell’Unione europea, pari al 7,4% e dunque nettamente superiore alla media continentale che non va oltre il 3,5.
In più, alle nostre latitudini il debito pubblico aumenta più velocemente rispetto agli altri Paesi europei e, tra 2023 e 2025, è destinato a lievitare dal 137,3 al 141,7%: 4,4 punti in più in soli due anni, cioè quasi il triplo rispetto a quel 1,6 previsto nel Documento di economia e finanza del governo Meloni. A tutto ciò si aggiunge il fatto che, negli ultimi 15 anni, il divario di crescita tra l’Italia e i partner europei si è enormemente ampliato: 15 punti persi rispetto alla Spagna, 14 rispetto alla Francia e addirittura 17 rispetto alla Germania. Il quadro è ancora più sconfortante se si confrontano la situazione economica del 2000 con quella del 2023. In questo lasso di tempo, infatti, l’Italia ha perso oltre 20 punti rispetto a Francia e Germania e 30 rispetto alla Spagna.
Di conseguenza, non può essere lo Stato a sostenere l’occupazione e i redditi attraverso il deficit, ma bisogna far crescere economia e salari rafforzando la produttività. Il che vuol dire superare una serie di limiti palesati dalle imprese italiane e, in particolare, meridionali. A cominciare dalle piccole dimensioni che non consentono alle aziende nostrane di reggere il passo dei colossi internazionali. Quelle stesse imprese, inoltre, hanno difficoltà nel dotarsi di tecnologie e competenze e, dopo la grave crisi economica del 2008, nell’accedere al credito bancario. Il contesto complessivo, poi, non aiuta: la pubblica amministrazione, che dovrebbe garantire alle aziende i servizi e il supporto necessari per lo svolgimento della loro attività, è inefficiente e pachidermica.
Perciò è indispensabile un’estensione della contrattazione collettiva e l’immediato rinnovo degli accordi scaduti ormai da decenni. In più, sono necessari modelli organizzativi, tecnologici e di competenze nuovi e più efficaci. E poi è il momento di una rete che colleghi i centri di innovazione alle imprese, magari sul modello del Fraunhofer tedesco, l’istituto pubblico che connette tra loro e al mondo delle aziende ben 75 centri di eccellenza.
Insomma, è giunta l’ora di smetterla con le richieste destinate a gravare sulle finanze pubbliche. Bisogna cambiare paradigma e far crescere economia e salari alimentando la produttività, non continuando a produrre debito pubblico e deficit. A meno che non si voglia veder lievitare il numero dei lavoratori poveri e trascinare lo Stato verso la bancarotta.
Raffaele Tovino è dg di Anap