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Pmi in crisi? Si punti sull’efficienza

Il rapporto regionale 2022 sulle piccole e medie imprese (pmi), curato dall’Area Coesione Territoriale e Infrastrutture di Confindustria e dal Cerved, offre un quadro dettagliato sullo stato di salute di quello che può essere definito il fulcro della struttura industriale italiana. Il rapporto analizza 160 mila società italiane di piccola e media impresa, che impiegano tra 10 e 249 addetti e con un giro d’affari compreso tra 2 e 50 milioni di euro. La posizione dell’Italia come settima potenza manifatturiera per valore aggiunto, quarta per diversificazione produttiva e seconda per competitività dell’export, si deve essenzialmente al contributo di queste realtà produttive.

La struttura manifatturiera italiana appare ancora segnata da caratteristiche negative: polarizzazione della struttura dimensionale con piccole-piccolissime imprese da un lato, e grandi imprese dall’altro (poche dimensioni intermedie); forte specializzazione nei settori tradizionali; disomogenea diffusione delle imprese sul territorio alla base dell’assetto dualistico della economia italiana. Nel Nord Italia, infatti, si concentra la maggior parte delle imprese, con 95 mila pmi (54,5 mila nel Nord-Ovest e 40,6 mila nel Nord-Est), mentre le pmi operative nel Centro e nel Mezzogiorno sono rispettivamente 33 mila e 32 mila. Il valore aggiunto complessivo prodotto dalle pmi è pari a 204 miliardi di euro. La quota maggiore è data dalle imprese del Nord-Ovest, pari a 81 miliardi (40% sul totale), 59 miliardi si devono al Nord-Est (28% del totale), mentre il Centro (35 miliardi; 17%) e il Mezzogiorno (29 miliardi; 14%) si attestano su dimensioni medie più ridotte.

Le imprese del Centro Italia hanno sostenuto il maggior peso dello shock pandemico (-10,3% di fatturato), penalizzate dalla specializzazione in settori fortemente colpiti dalle restrizioni sanitarie, (turismo, alberghi, ristorazione, sistema moda, concessionari autoveicoli). Forti effetti si sono avuti anche nelle regioni del Nord-Ovest (-8,8%) e del Nord-Est (-8,5%), dove a pesare sono stati le chiusure nel settore manifatturiero e nei servizi, mentre il Mezzogiorno ha mostrato un impatto di minore intensità (-6,1%) per la maggiore presenza dei comparti agroalimentare e costruzioni, definiti come “essenziali” nel corso della pandemia (trasporto e distribuzione alimentare). La pandemia ha anche generato una riduzione del numero di pmi soprattutto al Centro (-6,6%) e nel Mezzogiorno (-4,1%), mentre più contenute sono state le perdite nel Nord-Est e Nord- Ovest (rispettivamente -2,7% e -3,3%). Occorre sottolineare che il rapporto coglie ancora in modo limitato gli effetti sulle pmi italiane dell’aumento del costo delle materie prime e dei prezzi dei noli marittimi del periodo post-pandemico, con effetti rilevanti sulle catene di approvvigionamento e di logistica. Il clima di incertezza e la pressione inflazionistica hanno pesato anche sulla fase attuativa del Pnrr che dovrebbe attivare investimenti a sostegno dello sviluppo e della competitività delle pmi, in particolare sulla transizione digitale e sulla sostenibilità, elementi strategici per il rafforzamento delle pmi, soprattutto quelle meridionali (al Mezzogiorno è destinato il 40% delle risorse) a sostegno delle imprese più deboli, con fondi indirizzati al potenziamento dell’assetto finanziario e organizzativo, e soprattutto alle innovazioni tecnologiche.

Il Mezzogiorno costituisce, infatti, ancora la parte più debole della struttura delle pmi con una limitata presenza nel settore industriale (17,5%, rispetto al 34,2% del Nord-Est e al 27,6% della media nazionale) una maggiore presenza nelle costruzioni (15,9%, di fronte al 14,0% della media nazionale), nei servizi (60,9%, a fronte del 54,6% della media nazionale) e nel settore agricolo rispetto al resto del Paese (3,0% contro 1,7% della media nazionale). Il livello di efficienza e di vitalità delle pmi costituisce ancora per il nostro apparato produttivo un problema irrisolto su diversi piani, innanzitutto per la loro autonomia (tecnologica, finanziaria, di mercato) dalla struttura imprenditoriale settentrionale e dall’indotto delle multinazionali, e per la qualità del lavoro utilizzato, che è, in molti casi, basato sull’impiego di forza-lavoro precaria e non qualificata.

Rosario Patalano è economista

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