Certo, per ridurre il divario occupazionale tra donne e uomini, soprattutto al Sud, sono indispensabili i servizi. Già, ma quali? Degli asili nido, necessari per consentire al gentil sesso di conciliare i tempi di famiglia e lavoro, si è abbondantemente detto. Così come, su un altro fronte, si è evidenziata l’urgenza di un più largo ricorso ai congedi parentali da parte dei papà.
Ora un’attenta analisi del fenomeno suggerisce anche un’altra strada, cioè quella di una riforma del sistema universitario che avvicini le potenziali studentesse universitarie al luogo di fruizione dell’istruzione terziaria Stem riducendone i costi di mobilità territoriale.
Il dato di partenza è quello di una sostanziale sotto-rappresentazione delle donne negli studi e nelle occupazioni Stem, cioè in quelle che riguardano scienze, tecnologia, ingegneria e matematica. In questo ambito, infatti, l’esperienza dimostra come le donne siano scoraggiate dal frequentare questo tipo di studi. Il motivo? Cause culturali e istituzionali, ma anche i troppo alti costi del trasporto verso gli atenei.
Sul punto, cinque docenti italiani (Federica Braccioli, Paolo Ghinetti, Simone Moriconi, Costanza Naguib e Michele Pellizzari) hanno analizzato le recenti rilevazioni della forza lavoro condotte dall’Istat per ricostruire l’effetto dell’istruzione terziaria sul successo nel mercato del lavoro dei laureati italiani. Il risultato è una evidente correlazione tra le scelte universitarie e la vicinanza dell’università, dove per vicina deve intendersi una facoltà che si trovi nella stessa provincia di residenza del potenziale studente nel momento in cui quest’ultimo completa il ciclo di istruzione obbligatoria. Esempio: per un residente a Conversano è vicina una sede universitaria che si trovi nel perimetro della provincia di Bari al momento del conseguimento del diploma.
In particolare, il team di docenti ha evidenziato come le donne siano quelle più sensibili al requisito della vicinanza territoriale della sede universitaria: le loro preferenze oscillano tra la scelta di un’istruzione terziaria Stem e quella di rinunciare all’università. In questo contesto, che cosa accadrebbe se una riforma introducesse una facoltà Stem in ogni provincia italiana in cui essa manca? Ne nascerebbero 48 sull’intero territorio italiano. Con una serie di effetti sorprendenti.
Il primo: la quota di laureati in quelle materie aumenterebbe dell’1,1%, corrispondente a un incremento del 18% della loro consistenza attuale che ora non va oltre il 6,1. La maggior parte di questi laureati deriverebbe da chi, in mancanza di quella riforma, non si sarebbe iscritto all’università. Questo effetto sarebbe più forte per le donne: il divario di genere nelle materie Stem calerebbe di circa il 20%, mentre l’occupazione femminile crescerebbe di almeno mezzo punto. Che cosa dimostra tutto ciò? Che una politica seria di riduzione dei costi delle università, soprattutto di quelli legati alla mobilità territoriale, può contribuire ad abbattere il gender gap tanto nell’istruzione quanto nell’occupazione.
Il problema è che di una simile strategia non parla alcuna forza politica. Così come nessuno parla, per esempio, di una modifica dell’attuale sistema di tassazione e trasferimenti che, prevedendo crediti d’imposta per il coniuge a carico, scoraggia l’occupazione delle donne che di solito sono i membri della famiglia con prospettive retributive peggiori. Insomma, non bastano le sole “armi” degli asili nido e dei congedi parentali, per quanto indispensabili, a vincere la “guerra” del divario di genere e della disoccupazione femminile. Qualcuno, a Roma, se ne accorgerà?
Raffaele Tovino è dg di Anap
Bentornato,
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