La Regione Puglia ha deciso che deciso che riunirà il proprio Consiglio regionale per deliberare l’adesione alla richiesta di referendum abrogativo sulla legge in tema di regionalismo differenziato. Così segue la Regione Campania che ha deliberato una riunione del Consiglio regionale già lunedì prossimo. Con ciò si mette in moto la procedura per la richiesta, da parte di almeno cinque Regioni, di abrogazione della legge Calderoli, come previsto dalla Costituzione. Simili iniziative sono annunciate da Toscana ed Emilia-Romagna, la quinta Regione si troverà. Tuttavia non basta. Una iniziativa siffatta è accentuatamente politica, di parte, promossa dal centrosinistra nell’ambito di una mobilitazione nazionale. Occorre, evidentemente, anche altro.
La legge Calderoli non è solo sbagliata politicamente ma presenta dei profili di dubbia costituzionalità che meritano di essere affrontati prioritariamente. Procedere alla sola richiesta di referendum vuol dire contestare i contenuti della legge solo su un piano di opportunità e avrebbe l’effetto controproducente di dare per scontati i profili di legittimità della legge. Invece consistenti dubbi riguardano aspetti giuridici di conformità a Costituzione e le Regioni hanno lo strumento principe dell’impugnativa diretta delle legge statali davanti alla Corte costituzionale entro sessanta dalla loro pubblicazione.
Sulla base del ricorso, la Corte dovrebbe pronunciarsi in tempi brevi sull’interesse delle Regioni che hanno impugnato e quindi procedere, nel caso, a verificare se la legge statale sul regionalismo differenziato leda (“ecceda”) le competenze delle Regioni. In tal caso, provvederebbe a individuare i vizi, eliminando in tutto o in parte la legge. Gli effetti sarebbero più radicali di un referendum e assai più veloci perché un referendum si svolgerebbe tra molti mesi e con l’incertezza del quorum che ormai si raggiunge molto di rado. Non solo, siccome la legge tutto sommato dà attuazione (per quanti discutibile) a un articolo costituzionale, non è così scontato che la Corte ammetterebbe il quesito al voto salvo il quesito non tagliasse con il bisturi parti della legge.
Il piano dei vizi è molto più producente, per quanto non privo di incertezze. Con l’impugnativa anche di una sola regione la Corte si pronuncerebbe in poche settimane. Se le maggiori regioni meridionali concertassero l’impugnativa l’impatto simbolico sarebbe notevole e difficilmente la Corte potrebbe sottrarsi a un sindacato attento. Qualora invece le regioni facessero decorrere i sessanta giorni, la Corte si occuperebbe della legge solo attraverso la non semplice instaurazione di un giudizio davanti ad un giudice per violazione di una situazione giuridica di un soggetto. Dove sono finite le contestazioni sulla marginalizzazione del Parlamento nella procedura di devoluzione mediante intese tra Governo e Regioni, con leggi che si limitano ad approvare o respingere? E i dubbi sui meccanismi finanziari devolutivi inerenti i Lep e il trattenimento del gettito sul territorio in caso di intese? E ha basi giuridiche fondate la differenza – che si deve alla Commissione Cassese – tra materie Lep e non Lep immediatamente devolvibili? Vi sono elementi per affermare che la Corte possa riconoscere che la sfera di competenza delle regioni sia considerata compromessa anche solo da una procedura che però consente anche immediate attivazioni dei procedimenti di devoluzione, con riflessi negativi sulle altre Regioni sul piano normativo e finanziario.
Le Regioni potrebbero lamentare sia vizi del procedimento che rischi di danni sui diritti fondamentali dei cittadini. La richiesta di referendum va integrata da un’analoga e parallela delibera di impugnazione, per non apparire tutta leggibile in una chiave dialettica tra maggioranza e opposizione che svilirebbe un tema dirimente per il futuro della Repubblica, a partire dal Sud.
Bentornato,
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