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Per non subire il tempo, recuperiamo la capacità di cogliere le occasioni

“Ho fretta, non ho tempo” è una delle espressioni che ascoltiamo e pronunciamo più spesso. Che il tempo sfugga, che sia breve è una sensazione diffusa. Ci sentiamo oberati di impegni, spesso routinari e di poca rilevanza, che accrescono ancor più un senso di disagio. Sembra che il tempo scarseggi, che scorra sempre più velocemente: temiamo di non riuscire a fare più cose in meno tempo. L’incidenza che esercita questa percezione del tempo sulle esperienze, sulle scelte, sulle relazioni sociali ha un’enorme importanza. Se non sentiamo di padroneggiare il ritmo della nostra vita, vuol dire che qualcuno o qualcosa lo fa in nostra vece. Potrà apparire sorprendente, ma la pressione che il tempo esercita sulle nostre condotte non è limitata agli ultimi decenni. La modernità, almeno dal Settecento, ha nell’accelerazione dei ritmi uno dei i suoi principali connotati. Offre una promessa allettante: la qualità della vita è direttamente correlata alle tante esperienze che potremmo avere. Le molteplici opportunità tuttavia non possono essere, tutte e interamente, colte e realizzate nel corso di una esistenza, nonostante la notevole intensificazione dei ritmi che ne moltiplica le possibilità. Una promessa che si è dimostrata illusoria, ne abbiamo avuto prova nel corso di circa tre secoli, che si è dissolta nell’incessante mutamento sociale e individuale, lasciando spesso alla gran parte dei moderni una frustrante sensazione di dissonanza tra la vita che avrebbero voluto e quella che hanno realizzato.

L’ancella del radicale mutamento sociale degli ultimi decenni, la rivoluzione digitale, è apparsa come la chance più credibile per recuperare tempo, per avere tempo libero. L’accelerazione tecnologica ha incrementato in misura esponenziale la velocità, per citare qualche esempio, nell’elaborazione dei dati, nei trasporti, nelle comunicazioni. Lo spazio si è letteralmente compresso. Ci saremmo aspettati, impiegando meno tempo per spostarci, per informarci, per svolgere un’altra qualsiasi attività, sia un recupero di tempo che un rallentamento dei ritmi di vita. Invece, analisi empiriche dimostrano che mangiamo più in fretta, dormiamo meno, parliamo per un tempo più ridotto con i nostri familiari, perfino le attività sessuali si riducono e durano meno. Di contro: quanto tempo trascorriamo per scrivere e rispondere alle email, ai messaggi su WhatsApp, agli sms? E quanto quello che utilizziamo per essere presenti sui social, a cui spesso assegniamo il potere di confermare le nostre molteplici identità? E ancora, per stipulare un qualsiasi contratto o abbonamento siamo costretti a svolgere, on line, tutti gli adempimenti da soli, con dispendio di tempo e pazienza. E quante attività svolgiamo contemporaneamente senza coglierne più il senso? Non è insolito cucinare, guardare la tv o il pc e rispondere al cellulare.

Cosa è accaduto, dunque? Nella modernità classica (1800/1900) i princìpi della competizione e della prestazione erano limitati al mercato e alla produzione. Anzi, la performance (prestazione) era, perlopiù, un effetto delle abilità messe in campo dai soggetti impegnati in quelle attività. Eventi noti, come quelli del Novecento, ci ricordano che i sistemi di produzione fordisti o toyotisti furono sconquassati da dure lotte per ridurre la giornata lavorativa e conquistare tempo per sé. Chi ha letto le ricerche di Elton Mayo (1927), ha scoperto che gli operai della Western Electric, per tutelare i loro compagni meno veloci, contenevano con modalità solidaristiche la competizione per il cottimo. Nel tempo della contemporaneità, la performance pervade tutti gli ambiti della vita: la formazione scolastica, la sanità, la politica, l’informazione, i luoghi di culto, gli asili d’infanzia, la scelta degli amici, perfino le relazioni sentimentali. E poi c’è l’arena più competitiva, la prestazione più temuta: la presenza sui social, ai quai regaliamo ore del nostro lavoro gratuito, fornendo informazioni, foto, like, post, pensieri, acquisti. La giornata di lavoro di otto ore della fabbrica o dell’ufficio di epoca fordista è un ricordo sbiadito, come una vecchia foto in bianco e nero. La performance è un’esecuzione che sfida il tempo, si manifesta nel qui e ora con pretesa di valore per il futuro, che presto sarà un presente e si ricomincia, sempre di nuovo. È una scommessa fallita con un esito avvilente: perdiamo la presa sul nostro tempo di vita, il presente è un vissuto alienato. La linfa che alimenta la performance è la frenesia, visibile nei comportamenti smaniosi, frettolosi, approssimativi in perenne lotta con orologi e giorni di calendario. Il pendolo della performance oscilla senza sosta e tocca, nella sua alternanza, l’altro polo quello della stanchezza apatica e rinunciataria fino a raggiungere la paralisi.

Quali le possibili vie di fuga? Non un ritorno al passato: nessun rimpianto per il tempo trascorso alle catene di montaggio o in uffici polverosi. Forse quella civiltà a cui tanto spesso, non sempre a proposito, rivolgiamo il nostro sguardo potrebbe suggerirci una riflessione e una prassi. Gli antichi Greci, oltre a Kronos, dio del tempo lineare che scorre inesorabilmente, avevano un’altra divinità per esprimere un’idea del tempo affatto diversa: Kairos, un giovane alato che si mantiene in equilibrio su una lama di coltello. È calvo epperò ha un piccolo ciuffo di capelli sulla fronte. Se un umano vuole afferrarlo, può farlo soltanto acciuffando la ciocca di capelli. Ma se il gesto fallisce, la mano incontrerà solamente un cranio liscio e calvo, e già il momento opportuno sarà passato, sfuggito di mano.

Vengo dunque alla modesta riflessione proposta con aggiunta una possibile prassi: il tempo lineare nella contemporaneità si è frantumato e, in qualche caso, annullato per gli effetti della tecnologia digitale. È vano rincorrerlo affannosamente. Potremmo rivolgere invece la nostra attenzione al dio della opportunità, dell’occasione propizia. Per farlo occorre esercitare un’abilità, una virtù per Aristotele, che egli definiva “phronesis” e che, con qualche licenza, potrei tradurre in capacità nel fare la cosa giusta. Da alcuni anni studi di antropologia e sociologia hanno traslato più adeguatamente il temine “phronesis” con “agency”: capacità umana di agire. L’impiego del nostro tempo può essere subìto oppure scelto. Per millenni una buona parte degli umani è stata costretta a subirlo da re, sacerdoti, tiranni, padroni, capi, mariti, ma anche da caste e classi sociali dominanti, da sistemi economici e regole sociali. Oggi l’occasione potrebbe essere propizia: se provassimo a rifiutarci di far crescere ancora e smisuratamente il capitale-cloud con atti di disobbedienza civile e attiva e facessimo della rivoluzione digitale una leva per riappropriaci del nostro tempo?

Sergio D’Angelo è docente a contratto di Gestione e sviluppo delle risorse umane presso l’università di Bari

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