Per l’industria non tavoli ma strategie

Gli operai dell’ex Ilva sono tornati a manifestare a Roma e nelle città in cui sono si trovano gli stabilimenti siderurgici, a cominciare da Taranto. Sono almeno trent’anni che assistiamo a questi inutili e vuoti riti che non sortiscono altro effetto se non quello di aprire tavoli di confronto dai quali emergono promesse, rassicurazioni, idee più o meno campate in aria ma nessuna soluzione. La colpa non è certo delle maestranze, che legittimamente chiedono garanzie in ordine ai posti di lavoro.

È di una politica che dal 1993 a oggi, al netto del parziale tentativo fatto dal governo Renzi col piano Impresa 4.0, non è stata capace di delineare un programma industriale con una prospettiva almeno ventennale. L’esperienza, infatti, ci ricorda come tutti i governi succedutisi nell’ultimo trentennio abbiano lanciato proposte, talvolta condivisibili, salvo poi non realizzarle a causa della loro breve durata, dell’ormai consolidata instabilità politica e della tendenza a guardare a obiettivi di breve termine, capaci di creare consenso al momento ma incompatibili con il settore industriale che dà risultati a medio se non a lungo termine.

Che cosa dovrebbe fare, dunque, lo Stato? Puntare, in primo luogo, sulle infrastrutture di comunicazione, a partire da quella telematica che resta la più importante e urgente. Su di essa, come ha opportunamente sottolineato Raffaele Romano sulle colonne de “La voce di New York”, corrono i dati che sono determinanti per la creazione di valore nel mondo economico. Non a caso il tema della transizione digitale assorbe circa il 27% delle risorse del Pnrr e l’agenda Italia digitale 2026 suddivide gli interventi lungo due assi principali, il primo dei quali riguarda proprio le infrastrutture digitali. Qui bisogna accelerare: se, per esempio, la rete in fibra ottica continuerà a mancare in numerose zone del Paese, le piccole e medie imprese resteranno tagliate fuori da qualsiasi iniziativa di sviluppo.

In secondo luogo, è indispensabile superare quella forma mentis, affermatasi negli Ottanta e mai più sradicata, per la quale “piccolo è bello”. Questo principio poteva valere – e valeva – in un contesto non globalizzato. Oggi, però, non corrisponde a una realtà economica fatta di sfide che si giocano su scala mondiale. Per rafforzare e rilanciare l’industria nazionale, a cominciare da quella meridionale, è dunque indispensabile una politica che consenta e supporti la crescita dimensionale delle imprese, anche attraverso fusioni e acquisizioni.

Ultima questione, ma non meno importante, è quella dell’appoggio dell’Unione europea. Qualsiasi politica a favore del contesto nazionale, infatti, dev’essere pienamente aderente al diritto comunitario. La maggior parte dei Paesi dell’Unione, prima fra tutti la Germania, è molto attenta alle linee di comportamento dei propri grandi player in settori strategici come energia, trasporti aerei e telecomunicazioni. Ecco perché certi Paesi conducono una costante moral suasion per far sì che l’Europa adotti linee di sviluppo non in contrasto con le proprie e con quelle delle imprese locali: una strategia che uno Stato privo di determinate linee-guida economiche e di un piano industriale come l’Italia non può essere in grado di attuare.

E allora, anche alla luce della protesta degli operai dell’ex Ilva, l’Italia deve immediatamente adottare una politica che orienti le imprese verso scelte capaci di creare competitività e sviluppo nel medio-lungo periodo con benefici a tutti i livelli, a cominciare da quello occupazionale. A meno che non si voglia continuare a procedere per tavoli di confronto, utili più a riempire le pagine dei giornali che a far crescere il Paese.

Raffaele Tovino – Dg Anap

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