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Per l’ex Ilva grandi progetti e tanta confusione: triste analogia con Bagnoli

La vicenda dell’ex Ilva di Taranto torna drammaticamente alla ribalta in questi giorni: operai in sciopero occupano un tratto della statale Appia nei pressi dello stabilimento siderurgico; a Roma sindacati e Governo si confrontano senza successo; il ministro Adolfo Urso tuona contro la magistratura che a suo avviso ha impedito «tempestivi necessari interventi di salvaguardia» provocando di fatto l’incendio dell’altoforno il 7 maggio scorso e mettendo «a rischio il processo riconversione ambientale del sito di Taranto sia per la sostenibilità economica dello stabilimento, sia per il negoziato in corso con le aziende che hanno partecipato alla procedura di gara che si ritrovano condizioni diverse rispetto a quelle contrattate, sia soprattutto per i rilevanti impatti occupazionali diretti e indiretti»; infine uno sconsolato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, ha sottolineato mestamente, in occasione del tavolo avviato con i sindacati, che il momento è drammatico, «certamente uno dei più difficili se non il più difficile in assoluto dall’avvio dell’attività del Governo».

Pessimismo, rabbia e confusione sono gli unici elementi certi di questa vicenda, giunta a un ennesimo inconcludente approdo. Per l’ex Ilva, il complesso siderurgico più grande d’Europa che un tempo vantava 8mila addetti, impianti che occupano una superficie di 15 milioni di metri quadrati e una capacità produttiva di 8 milioni di tonnellate di acciaio, non si riesce a trovare una soluzione che possa garantire il diritto alla salute e il sacrosanto diritto al lavoro in una realtà già difficile. Ormai è chiaro che l’impianto dovrà essere fortemente ridimensionato per la produzione di acciaio verde in seguito alla decarbonizzazione. Almeno questo sembra emergere dai negoziati in corso con potenziali acquirenti, come la Baku Steel Company, che dispone di impianti con tecnologie innovative di fusione e colata continua.

Il ministro, in un suo intervento alla Camera, ha posto tre condizioni: il rilascio in tempi brevi di una Aia (autorizzazione integrata ambientale) che garantisca la tutela della salute, ma sia sostenibile economicamente; il rilascio delle autorizzazioni per la nave rigassificatrice, necessaria ad alimentare gli impianti, perché senza gas non è possibile la produzione di acciaio green; nelle complesse fasi di transizione è necessario garantire la continuazione delle attività produttive dello stabilimento per mantenere le quote di mercato e i livelli occupazionali. Intorno alla riconversione dello stabilimento dovrebbero sorgere diverse opportunità occupazionali, come lo sviluppo di infrastrutture e produzione legate all’energia eolica; il potenziamento della cantieristica navale e della logistica portuale: attività indotte come carpenteria, ferrovie e meccanica; investimenti in data center, intelligenza artificiale e ricerca applicata, nel progettato Tecnopolo Mediterraneo di Taranto, che dovrebbe ambire a diventare un punto di riferimento in ricerca, sviluppo di tecnologie avanzate, energia pulita ed economia circolare. Per attuare questo complesso programma, unico nel panorama desertico della politica industriale italiana, dovrebbero essere disponibili circa 796 milioni di euro del Just Transition Fund, non direttamente destinati alla acciaieria, ma utilizzabili per il territorio in modo da attivare investimenti privati e diversi gruppi industriali (come Fincantieri, Renexia, Toto Holding, Webuild Group, Gruppo MerMec, Igenius, Greentech Aerospace) hanno già presentato diversi progetti.

Tutto questo ricorda uno scenario già visto, quello di Bagnoli. Grandi progetti, ma dopo trent’anni la scena è ancora dominata dagli scheletri dei vecchi impianti e dalla terra ancora avvelenata. Una vicenda che dipende dalla incapacità delle classi dirigenti locali, ora convertite improvvisamente alle magnifiche sorti di una gara nautica come la Coppa America nel golfo di Napoli, stravolgendo i progetti decisi appena pochi mesi prima. Lo spettro di Bagnoli incombe come un incubo sul destino di Taranto.

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