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Pene umane così lo stato può imporsi

La sanzione penale deve essere umana, nel rispetto di un principio di civiltà che riconosce, e al contempo limita, il potere punitivo dello Stato. Deve ritenersi legittimo soltanto il potere esercitato nei limiti imposti dall’umanità in quanto soltanto così si offre un pieno riconoscimento ai cittadini quali soggetti titolari di diritti, di libertà e di garanzie. Il principio di umanità della pena ci ammonisce affinché la pena non sia mai barbarie e lo Stato non raggiunga mai il livello di chi viola la legge.

Anche di fronte ai crimini più efferati lo Stato deve sempre rispettare un canone di umanità nell’irrogare la pena. Nella decisione del 6 settembre 1999, la Corte Suprema di Israele proibì l’uso di “pressioni fisiche” finalizzate a procurarsi informazioni ritenute necessarie alla prevenzione di futuri atti terroristici; in quella occasione il giudice Aharon Barak osservò che «nonostante debba combattere con una mano legata dietro la schiena, la democrazia ha comunque il coltello dalla parte del manico». Chi infligge il castigo deve avere il coraggio di combattere il crimine con una mano legata dietro la schiena soprattutto quando la persona accusata è sotto il suo potere, privata anche della libertà personale, ma giammai del valore della dignità umana.

Soltanto rispettando questo principio potrà essere sancita la superiorità etica della collettività rispetto al crimine del singolo e potrà essere evitata la degenerazione che porterebbe a replicare al male con il male, alla violenza con la violenza e alla crudeltà con la crudeltà, così creando confusione tra pena (concetto pervaso dal carattere della pubblicità in quanto si punisce per tutela della collettività) e vendetta (concetto che rimanda ad un carattere meramente privatistico).

L’articolo 27 della Costituzione esprime, da un lato, un divieto, un argine invalicabile, ossia quello dei trattamenti contrari al senso di umanità, e quindi pone un limite sia alla funzione retributiva della pena (“occhio per occhio e dente per dente”), sia alla sua funzione di prevenzione generale (“punirne uno per educarne cento”).

La stessa norma, nella sua parte programmatica e precettiva, impone che le pene abbiano una finalità rieducativa, ossia che debbano tendere alla rieducazione del condannato.

L’uso del plurale lascia chiaramente intendere che la pena non debba essere intesa soltanto come carcere e che, anzi, debba cercare di andare al di fuori del carcere proprio per “sprigionare” la sua funzione migliore per il reo e per la società e per rendere più concreto e vicino al condannato il diritto alla speranza.

Così al divieto, per lo Stato, di irrogare pene inumane, deve affiancarsi il diritto fondamentale per ogni cittadino di subire una pena contraddistinta da umanità.

Accanto alla potestà punitiva esercitata dallo Stato ci deve essere il rispetto del dovere di infliggere un trattamento umano, cui deve fare da contraltare il diritto soggettivo del condannato a ricevere una punizione umana.

Del resto, soltanto un trattamento penitenziario rispettoso del senso di umanità e una vita quotidiana quanto meno dignitosa possono essere in grado di rieducare chi ha commesso un errore, ragione per la quale un ordinamento rispettoso dei diritti dei suoi consociati deve assicurare queste caratteristiche nel corso del trattamento penitenziario.

Al contrario, un trattamento che viola i valori fondamentali della umanità e della dignità non può che essere percepito come meramente afflittivo e provocare rabbia, frustrazione e desiderio di vendetta sociale, così vanificando ogni sacrificio teso a mantenere saldo il delicato punto di equilibrio tra esigenze di sicurezza sociale e finalità rieducativa delle pene.

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