Il 16 marzo il governo ha approvato il testo del disegno di legge della riforma fiscale che andrà alle Camere, una riforma a tutto tondo che spazia dal piano dei principi generali a quello più specifico dei singoli comparti della tassazione. Il giudizio complessivo, di natura tecnica, senza poter scendere qui nei dettagli, è positivo e ne spiego le ragioni attraverso una succinta analisi delle parti più qualificanti. La delega apre finalmente alla codificazione ed alla legislazione per principi. Significa svincolare la legislazione dal metodo casistico e prescrivere al legislatore delegato il recepimento dei principi dello statuto del contribuente, l’adozione di una disciplina unitaria per tutti i tributi, del soggetto passivo, dell’obbligazione fiscale, delle sanzioni e del processo. Un passo in avanti non di poco conto e dagli operatori auspicato insistentemente, a fronte dell’attuale frammentazione della normativa. Conseguentemente, de lege lata, dovrebbe emergere una curvatura culturale nella dicotomia giudiziario/legislativo. Primato del giudiziario o primato del legislativo?
Il nuovo corso dovrebbe portare, in sostanza, all’annunciato recupero degli strumenti legislativi idonei ad assicurare la certezza dei rapporti giuridici, per quanto concerne quelli tra contribuente ed amministrazione finanziaria, e ad un affievolimento della cosiddetta giurisprudenza creativa spesse volte criticata. Lo Statuto dei diritti del contribuente, sistematicamente derogato in quanto legge ordinaria, dovrà uscire rafforzato quale legge generale e riportata nell’ambito delle preleggi al codice civile, sì da assicurane un’efficacia rafforzata. È previsto il riordino del sistema sanzionatorio attualmente duale, caratterizzato dalla sovrapposizione di sanzioni fiscali e penali, in violazione del divieto del ne bis in idem. Dovrebbe essere rivista anche l’applicazione della misura delle sanzioni, che attualmente superano nel massimo il duecento per cento ma che, a fronte della funzione di deterrenza, ostano ai criteri di proporzionalità e di ragionevolezza imposti dai principi eurounitari.
Un’attenzione viene riservata dal testo di riforma alla riscossione coattiva, che ha in pancia centinaia di milioni di crediti gran parte dei quali inesigibili, mediante la riconduzione all’Agenzia delle Entrate del governo dei criteri di conduzione dell’attività.
Sul piano della definizione delle liti, finalmente viene riesumata un’antica proposta, proveniente dai settori dell’Avvocatura specialistica, di introdurre la definizione agevolata anche in caso di pendenza della lite innanzi alla Corte di cassazione, essendo priva di sostanza logica il divieto di concordare la controversia col Fisco nel grado di legittimità.
Sul versante penale, è previsto un ridimensionamento dell’interesse fiscale rispetto agli altri valori costituzionalmente protetti. Sanzionare il contribuente a prescindere dalle motivate e provate ragioni che lo hanno costretto a non poter versare il tributo al Fisco non è un criterio che possa giustificare, fatta eccezione per quelle decisioni giudiziarie giuridicamente più coraggiose e sensibili, l’isolamento degli altri valori protetti in Costituzione (lavoro, famiglia). Analogamente, sempre sul versante processualpenalistico, è privo di logica e di interesse non ammettere l’esimente della non punibilità laddove e comunque il contribuente stia assolvendo il debito verso il Fisco, anche mediante l’istituto della rateazione, in tal modo mostrando in fatto la volontà di adempiere.
Enorme inversione culturale di marcia è la prospettiva di riconoscere ai contribuenti l’attenuante dell’impossibilità di far fronte al pagamento del tributo non dipendente da fatti a lui imputabili nonché la prospettiva di attribuire efficacia alle definizioni raggiunte in sede ammnistrativa e giudiziaria ai fini della valutazione della rilevanza penale del fatto.
La pur sommaria elencazione innerva l’intervento riformatore, che agisce sui principi e sui criteri applicativi dei tributi sganciandosi dalla logica “panpenalistica”.
Anche le critiche espresse nei confronti della riduzione delle fasce delle aliquote trascurano il dato fattuale della loro progressiva riduzione nel corso dei decenni. Ho già scritto in precedenza su questo giornale (Edicola del Sud dell’8 marzo) che, al momento dell’introduzione della precedente riforma del 1973 (istituzione dell’Irpef), l’aliquota massima era del 62% rispetto all’attuale 43%. L’aliquota minima oggi è del 23%, rispetto al 12% del 1973. Se compariamo i dati in assoluto, l’escursione attuale tra aliquota minima e massima è di 20 punti mentre al 1973 era di 50 punti. Se son rose fioriranno.
Antonio Damascelli è presidente di Uncat