È semplice sgrammaticatura istituzionale o nelle critiche rivolte a Giorgia Meloni, presidente del Consiglio in pectore, su un presunto ritardo nella formazione del nuovo Governo c’è molto di più? Domanda d’obbligo visto che i sopraccigli alzati non sono arrivati solo dal popolo continuamente evocato, ma anche da commentatori politici che sanno il fatto loro. Il quesito è d’obbligo perché la risposta implica una riflessione sul rapporto cittadini-istituzioni; sulla contaminazione della rapidità di interazione che ormai attraversa anche il ruolo pubblico dei politici e non da ora, generata dai social; sull’ormai superamento di fatto dei riti istituzionali che hanno caratterizzato la Prima Repubblica nell’attribuzione, da parte del presidente della Repubblica, dell’incarico di formare un nuovo Governo.
Si tratta, evidentemente, di prendere atto di un processo ormai conclamato che vede forzati i dettati costituzionali in materia di formazione di un nuovo esecutivo. E partiamo da qui. L’iter è precisato in due snelli articoli della Costituzione italiana, i padri costituenti non si perdevano in chiacchere. A regolamentare il tutto l’articolo 92 e il 94. Con il primo è definito che il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio e su proposta di questo i ministri. Con il secondo è precisato che il nuovo Governo deve avere la fiducia della due Camere entro dieci giorni dalla sua formazione, da qui ne discende che debbano essere nominati prima i presidenti dei due rami del Parlamento. A quel punto, poi, il presidente della Repubblica avvia le consultazioni dei partiti affinché, Mattarella nel caso di specie, possa individuare la figura politica che deve essere investita del mandato per la formazione dell’esecutivo.
Questo il già noto che deve fare i conti con l’ipocrisia italica: di fatto il presidente della Repubblica prende atto dell’esito del voto che è, nei fatti, espressione del gradimento verso un probabile premier. Una sgrammaticatura molto cara al centrodestra, ma alla quale non si sottrae nessuno: né esplicitamente, né implicitamente. A forzare il dettato costituzionale fu Berlusconi, al quale vengono attribuite molte malefatte, ma la più grave è proprio quella di aver spinto la società italiana verso un individualismo che ormai ha accenti, in tutti i campi della vita pubblica e privata, di una deriva deteriore. E come interpretare la forzatura della Costituzione sulla designazione del presidente del Consiglio se non come espressione più evidente di un individualismo liberista che, figlio di un egoismo patologico, non può giovare alla popolazione nel suo insieme?
A questo punto è d’obbligo chiedersi se serve una riforma costituzionale che adegui al sentire popolare la forma di Governo che rappresenti la contemporaneità. Gli italiani vogliono una Repubblica semipresidenziale, presidenziale, parlamentare con tutto ciò che implica in termini di potere conferito al presidente del Consiglio. Argomento trattato da tempo, con un tentativo serio in questa direzione che ormai è di un quarto di secolo fa quando fu costituita una Bicamerale con presidente Massimo D’Alema finita, come è noto, nel puro nulla. Da allora si agisce con forzature di fatto e con la pretesa di poter avere, sic et simpliciter, la lista dei ministri da poter vivisezionare prima ancora che i passaggi fondamentali siano stati compiuti. Nel mezzo la politica ci “regala” le perle di un’elezione che mette la seconda carica dello Stato nelle mani di un politico con un passato ben definito eletto grazie a 17 franchi tiratori che hanno fatto da 118 al centrodestra orfano, in quella votazione, di un suo pezzo. Primo indiziato del soccorso l’immancabile Renzi. Insomma, anche le elezioni 2022 non hanno cambiato di una virgola le dinamiche della politica italiana.