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Padri sacrileghi, figli ribelli

In politica, oggi, assistiamo a una scena che sembra ripetersi ciclicamente: la fatica dei “padri” a investire sui “figli” e, allo stesso tempo, lo sforzo dei “figli” di convincere i padri a lasciare spazio. Non è un semplice problema anagrafico: riguarda il potere, la trasmissione del sapere, la costruzione di futuro. Ogni stagione politica sembra oscillare tra la resistenza di chi ha consolidato il proprio ruolo e l’impazienza di chi reclama un posto nella storia.

Negli ultimi decenni abbiamo conosciuto slogan come “rottamazione”, che riducevano questa dialettica a un gesto meccanico, quasi industriale: eliminare il vecchio per far spazio al nuovo. Ma la vita delle istituzioni non è una catena di montaggio. E la soluzione non può essere il semplice azzeramento, perché senza eredità, senza continuità, non c’è futuro che regga.

Freud, con il suo sguardo antropologico e psicoanalitico, ci ha lasciato una chiave di lettura che rimane sorprendentemente attuale. Nel mito dell’orda primordiale, i figli si coalizzano per uccidere il padre, colui che detiene il potere e le donne. È un atto fondativo: dall’assassinio nasce la legge, e dunque la civiltà. In politica, l’“uccisione simbolica” del padre si manifesta come rottura con il passato, rivendicazione di autonomia, desiderio di emancipazione. Ma Freud ci mette in guardia: il padre non è solo limite, è anche radice. Ucciderlo senza ereditarne nulla significa restare orfani di identità. La funzione paterna, insomma, serve a essere superata, non annullata.

Se spostiamo lo sguardo a Dante, la metafora si fa carne e sangue. Nel XXXIII canto dell’Inferno, il conte Ugolino divora il cranio dell’arcivescovo Ruggieri in un’immagine che rimane scolpita nella memoria collettiva. Ugolino, imprigionato con i figli, vede morire la sua discendenza e ne diventa, in qualche modo, carnefice. Se Dante dovesse riscrivere oggi quella scena, forse non parlerebbe più di torri e chiavi negate, ma di stanze del potere dove i padri, incapaci di cedere, finiscono per divorare i figli. Non più carne, ma futuro: la giovinezza sprecata, le energie frustrate, le intelligenze respinte.

Questa dinamica non riguarda soltanto le biografie dei leader politici, ma tocca la struttura stessa della democrazia. Una democrazia matura non è fatta di padri eterni né di figli impazienti che vogliono azzerare la memoria. È costruita sul patto generazionale: il padre che consegna un’eredità, il figlio che la assume per trasformarla. In Italia, spesso, questo passaggio è mancato. Abbiamo avuto leader restii a lasciare spazio e, dall’altra parte, generazioni che hanno preferito la scorciatoia della delegittimazione piuttosto che la fatica dell’assimilazione critica.

Eppure, la politica avrebbe bisogno di un altro linguaggio. Non quello della “rottamazione”, che sa di ferro e officina, ma quello della cura: trasmettere, accompagnare, lasciare, accogliere. Senza padri che consegnano, i figli restano affamati e si ribellano; senza figli che sanno ricevere, i padri si irrigidiscono e tradiscono il loro compito.

Forse la lezione che possiamo trarre è proprio questa: la civiltà si fonda non sull’eliminazione dei padri, ma sulla loro trasformazione in testimoni. È la differenza tra il padre-padrone, che divora, e il padre che genera ancora una volta lasciando spazio.

Dante ci ammonisce con la sua potenza poetica, Freud con la profondità della sua analisi. E la politica, oggi, ha bisogno di entrambi: la capacità di leggere i conflitti nella loro radice antropologica e la forza di rappresentarli con immagini che scuotono. Perché in fondo la domanda è semplice: vogliamo restare nel ciclo infinito dei padri che divorano i figli, o abbiamo il coraggio di inaugurare una stagione di eredità condivisa?

Non è questione di rottamazione, ma di civiltà. Il tempo corre e le classi dirigenti devono saper cogliere il momento in cui la scelta personale, non deve danneggiare l’esito collettivo di un passaggio elettorale delicato.

Conservare il meglio del passato, innovarlo, con nuove classi dirigenti, in grado di interpretarlo al meglio. La primavera è la stagione dei colori, i colori del presente e del futuro, devono necessariamente essere diversi da quelli del passato.

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