Non sarà un autunno facile per questo Governo che si appresta a raggiungere il traguardo del suo primo anno di vita. All’orizzonte si profila un nuovo rialzo della bolletta elettrica: Nomisma stima che, per il prossimo ottobre, i prezzi subiranno aumenti tra 7 e 10%.
Si ripropone così il circolo vizioso che ha caratterizzato la congiuntura degli ultimi due anni: di fronte all’aumento dei prezzi della materie prime le imprese reagiscono aumentando a loro volta i prezzi di beni e servizi, al fine di mantenere intatti i loro margini di profitto, tentando di scaricare su consumatori e concorrenti il peso dei costi più elevati. Ne è derivata una spinta inflazionistica accelerata che dall’inizio del 2022 ha fatto crescere i prezzi dell’11% nella zona euro.
Il meccanismo inflazionistico ha quindi una duplice causa. In parte è determinato da fattori esogeni, soprattutto dall’incertezza che caratterizza i mercati causata dalle crisi geopolitiche, ma anche per le pratiche speculative seguite dai Paesi esportatori di materie prime, in primo luogo di prodotti petroliferi. In parte è sostenuto da fattori endogeni effetto del regime di liberalizzazione che consente alle imprese di modificare, senza alcun controllo, i prezzi per ricostruire i margini di profitto.
L’inflazione interna è stata così alimentata per circa due terzi dalla crescita dei profitti per unità di prodotto, mentre nei vent’anni precedenti i profitti hanno contribuito mediamente solo per un terzo alla variazione dei prezzi. La spinta inflazionistica ha eroso rapidamente la domanda interna (contrattasi di oltre il 2% nei primi sei mesi del 2023) con l’effetto di ridurre la crescita e minacciare la stabilità dei paesi con più elevato debito pubblico (l’Italia in primo luogo). Ad aggravare ulteriormente il quadro è stata la politica monetaria della Banca centrale europea che è impegnata per statuto a mantenere l’inflazione media nell’Unione intorno al 2% (ad agosto si è attestata a + 5,2% su base annua) e che per conseguire questo obiettivo è obbligata ad aumentare i tassi di interesse (sulle operazioni di rifinanziamento principali è stato a settembre portato al 4,50%) ostacolando ulteriormente la ripresa di consumi e investimenti.
Lo shock inflazionistico del 2022 ha determinato un’ampia riduzione dei salari reali pari al -5.2%, causando una perdita netta di potere di acquisto per i lavoratori senza precedenti, e questa contrazione ha ridotto i consumi determinando una crisi di realizzazione dei margini di profitto delle imprese. Le imprese subiscono così l’effetto negativo dell’aumento dei prezzi innescato proprio dalla loro politica di difesa dei margini di profitto. È ovvio che in questo scenario occorrono interventi radicali, ma il Governo mantiene la sua linea liberista e si astiene dall’intervenire sul piano della distribuzione della ricchezza sociale: se persisterà su questa strada, il conflitto sociale sarà inevitabile, soprattutto per il Mezzogiorno ormai abbandonato a se stesso e ridotto a questione di ordine pubblico. Occorre, invece, definire una politica dei redditi in grado di ripristinare il potere d’acquisto dei lavoratori per incrementare la domanda interna ricostruendo i margini di profitto delle imprese. Occorre stabilire un nuovo patto sociale tra imprese, lavoratori e Stato che consenta di controllare gli effetti negativi del processo inflazionistico. Ma una nuova politica dei redditi non è nell’agenda di questo Governo, troppo distratto dalla minaccia di un’invasione dall’Africa.