La parola “carcere” ferma il respiro, l’idea delle mura rigide e invalicabili che ne segnano i confini consegna alle cittadine e ai cittadini l’idea di un mondo che separa -come se fosse possibile farlo- il male dal bene e che rassicura i buoni punendo i cattivi.
In realtà colpisce dritto al cuore della sensibilità umana il pensiero della privazione del bene più prezioso, ossia la libertà personale, per un cittadino, talvolta ancor prima che un Giudice abbia sancito la sussistenza della sua penale responsabilità. Nessuno può sapere quanto potrà resistere una persona che trascorre una parte della sua vita dipendendo da altre persone, dopo avere perso il diritto a scegliere, a decidere e finanche a pensare.
Il concetto diviene ancor più grave se si pensa alle modalità di espiazione della sofferenza, rese terribili dall’alto numero dei detenuti, dal basso numero dei detenenti e dalla proverbiale inefficienza delle strutture penitenziarie.
La Casa circondariale di Bari, ad esempio, è un edificio che risale al 1920, epoca nella quale la pena era vissuta esclusivamente come punizione, come castigo, come retribuzione in male da infliggere rispetto al male provocato a seguito del reato commesso.
Ovviamente la struttura risente della mancanza della possibilità di prevedere attività di carattere risocializzante per le persone ristrette, le quali dovevano soltanto oziare nell’attesa del fatidico momento nel quale le porte che affacciano sulla società si sarebbero riaperte.
Noi Avvocati pensiamo di conoscere il carcere perché accediamo negli edifici penitenziari per intrattenere colloqui con i nostri assistiti detenuti, ma in realtà conosciamo soltanto gli ingressi (accompagnati dal rimbombo nell’animo del rumore delle mandate della maxi chiave che chiude il cancello di ferro alle nostre spalle dopo l’accesso) e la sala Avvocati, stanza arredata da due sedie divise da un tavolo sul quale si appoggiano le carte e le speranze delle persone ristrette.
Grazie all’associazione “Nessuno Tocchi Caino”, abbiamo avuto più volte occasione di accedere davvero all’interno del carcere, sia in quegli ambienti nei quali le persone private della libertà personale sono costrette a passare la loro vita “privata”, giustamente conosciute come “celle” in cui condividere ogni attimo della vita e dell’intimità con persone estranee con cui non si è scelto di vivere, sia in quegli ambienti, noti come luoghi dedicati al “passeggio” oppure “all’aria”, in cui si ha la sensazione di vivere all’interno di un girone dell’Inferno dantesco, in cui tante anime vagano inseguendo il tempo che si consuma e le consuma.
Si ha l’impressione di vivere in un mondo in bianco e nero e si prova un senso d’impotenza rispetto alla possibilità di trasformarlo in un mondo a colori, come se i colori fossero riservati soltanto a chi si trova al di là delle mura.
Per evitare il susseguirsi dei suicidi delle persone divorate dall’ozio e dall’assenza della speranza, bisogna seriamente impegnarsi perché possano entrare in carcere meno persone possibile e soprattutto perché ne possano uscire di più di quelle che sono entrate.
Non è possibile restare inerti sapendo che oltre un terzo delle persone detenute in Italia abbia da espiare una pena residua inferiore a tre anni.
Occorre una scelta emergenziale, come quella della liberazione anticipata “speciale”, affiancata da una scelta prospettica di razionalizzare l’uso della massima misura cautelare, che dovrebbe davvero rappresentare un’eccezione, e di evitare gli accessi al carcere per i condannati ad una pena inferiore a quattro anni di reclusione, con un favor incondizionato per la detenzione domiciliare.
Con risparmio di spese e di salute per tutti e con un tuffo in un Paese con un sistema giudiziario civile ed efficiente.