Categorie
Le idee Le idee

Non trasformiamo diritti universali in privilegi soggetti a tariffa

Caro direttore, Venezia chiama e Greenpeace risponde. Lunedì mattina – l’ora in cui i piccioni stropicciano le ali e i gruppi di turisti devono ancora macinare il primo ponte – una manciata di attivisti di Greenpeace, spalleggiati dal collettivo inglese Everyone Hates Elon, ha steso in piazza San Marco uno striscione che suonava come una sassata: «Se vuoi affittare Venezia per il tuo matrimonio, allora puoi pagare più tasse».

Pochi minuti di azione, abbastanza per scatenare un effetto domino capace di spostare l’intero circo nuziale – celebrato dal re Mida dell’e-commerce Jeff Bezos – dall’ombelico della Serenissima alla più defilata zona dell’Arsenale. Un blitz quasi chirurgico: zero coriandoli, zero feriti, ma un messaggio a prova di gondola ribaltata. «Venezia non è in vendita né in affitto», tuona da anni Tommaso Cacciari, portavoce del Comitato No Grandi Navi. E aggiunge il carico da novanta: «Bezos incarna quel modello economico divoratore di pianeta che crea oasi dorate per pochi e deserti sociali per il resto del mondo».

Difficile dargli torto quando la Laguna rischia di trasformarsi nella scenografia privata dell’ennesima fiaba ultramilionaria, con tre giorni di banchetti riservati – Lido, isola di San Giorgio e canali off-limits – roba che neanche un set di Hollywood. Non è solo questione veneziana. Spostiamoci di 700 chilometri, scendendo la dorsale adriatica: Puglia, Monopoli, cartolina perfetta di chiese imbiancate e acque trasparenti. Anche qui la liturgia si ripete: cattedrale recintata, centro storico blindato, spiagge interdette per “eventi internazionali” a uso e consumo di invitati-vip. In certi casi lo Stato sovrano diventa il wedding planner di chi può permettersi di strapagare il biglietto. E mentre i flash immortalarono calici e fuochi d’artificio, gli abitanti restavano fuori dai varchi, costretti a giri da Giobbe e parcheggi salassati. Già, i parcheggi: nelle città “turistlandia” l’automobile del residente è il bancomat perfetto. Paghi le tasse, poi ripaghi per il posto auto sotto casa. Una doppia tassa che gronda ironia amara, specie se l’amministrazione giura di volere “città inclusive”.

Qui il nodo si fa etico, prima ancora che urbanistico. La privatizzazione degli spazi – dal salotto veneziano alle spiagge pugliesi – trasforma diritti universali (circolare, sostare, fare un tuffo) in privilegi a tariffa dinamica. E le spiagge “libere ma impraticabili” diventano l’alibi perfetto: poche, mal attrezzate, inaccessibili a disabili e anziani, a volte chiuse per frane. È l’Italia a due corsie: fast-lane per chi paga premium, strettoia per chi bussa al tornello dell’inclusione. Non che Bruxelles non lo dica da tempo: sostenibilità significa equilibrio tra ambiente, coesione sociale ed economia. Ma finché la bilancia pende dal lato dei profitti immediati, il capitolo “uguaglianza” resta un paragrafo in corpo 8 nelle agende istituzionali.

La pressione mediatica e il tempismo fulmineo dell’azione Greenpeace hanno conquistato un primo risultato: Bezos & Co. arretrano di qualche ponte; San Marco rimane dei veneziani (e dei turisti, certo, ma senza red carpet privato). Un precedente che fotografa due verità: le città d’arte non sono parchi a tema da affittare e i movimenti climatici sanno colpire dove fa più male – l’immagine patinata degli ultraricchi. Resta il finale aperto. Venezia, Monopoli, Bari, Lecce: quanto vale un panorama? Chi decide il prezzo di una laguna o di una cala? E soprattutto: quanti cartellini “riservato” dovremo ancora strappare prima che spazio pubblico torni a significare, semplicemente, spazio di tutti? La prossima volta che un miliardario chiederà “Posso prendere la piazza per un weekend?” la risposta, forse, suonerà meno diplomatica e più veneziana: «Xe casa nostra, fioi. E le chiavi non sono in affitto».

Lascia un commento Annulla risposta

Exit mobile version