All’inaugurazione dell’anno giudiziario un coup de théâtre: il protagonista, a cui era stata tolta la parte dai giudici chiamati a pronunciarsi sulla sua legittimità, viene ricollocato al suo posto perché “the show must go on”. Non è un bel vedere! E che la situazione sia drammatica lo si coglie anche dalle parole del presidente della Corte di appello di Bari, Franco Cassano, che ha evidenziato la sfiducia dei cittadini verso la giustizia e gli stessi giudici.
La sua relazione ha toccato anche il tema del sovraffollamento degli istituti di pena, soprattutto a Bari e a Foggia. Il magistrato ha ribadito come il carcere sia il più grande fallimento sociale degli ultimi secoli e, nonostante tutto, l’unico farmaco che la politica sa somministrare per rassicurare la società. Un’affermazione condivisibile e da approfondire.
La “medicina carcere” dovrebbe contenere tra i “principi attivi” quelli costituzionali e quelli dell’Ordinamento penitenziario: solo così può avere effetti positivi. Una somministrazione fuori da quelle regole, che prevedono anche cure alternative, è pericolosa non solo per il “paziente” ma per tutta la popolazione. Il “bugiardino” è chiaro su tempi e modalità di assunzione. La medicina va propinata solo in casi gravi, in cui ogni altra cura sarebbe inefficace. E il malato non va lasciato solo, ma reso responsabile e seguito nel suo percorso di risocializzazione.
L’impegno dello Stato, a cui egli è affidato, non deve mai tramutarsi in vendetta, ma in un’offerta di percorsi diversi da quelli finora praticati. La “degenza” deve preservare lo “stato di salute” e garantire un rapporto costante con la famiglia, dalla quale il “paziente” non va mai allontanato. Solo così il “farmaco” potrà contribuire seriamente alla guarigione e restituire alla società una persona sana, diversa, che non tornerà ad ammalarsi.
Purtroppo ciò non accade perché il “foglio illustrativo del medicinale” è pressoché ignorato da tutti coloro che sarebbero chiamati istituzionalmente a osservarlo. Una lunga catena di responsabilità che coinvolge, da tempo, se non da sempre, l’intero apparato politico e in particolare Ministeri, Dipartimenti e Provveditorati dell’amministrazione penitenziaria fino alle stesse direzioni degli istituti e il corpo della polizia penitenziaria. Non ci riferiamo alla colpa di singoli individui, ma dell’apparato tutto. Una gigantesca macchina organizzativa a cui è affidata la cura dell’individuo che non riesce a raggiungere il risultato assegnatole, ma si accontenta di avere il “farmaco” senza rispettare le regole indicate nel “bugiardino”.
La rassegnazione e l’indifferenza sono le caratteristiche di chi sovrintende alla “cura”. Rassegnazione per l’assenza di risorse, ma non si percorrono strade nuove. Indifferenza, perché anche quel minimo che potrebbe essere fatto immediatamente non viene eseguito. Solo a titolo di esempio, può essere citato l’articolo 123 del codice di procedura penale, la cui recente riforma, fortemente voluta dall’Unione delle Camere Penali, prevede che le richieste e la nomina del difensore effettuate dal detenuto vengano comunicate anche all’avvocato difensore. Ebbene, dopo quattro mesi la maggior parte degli istituti di pena non adempie a tale obbligo. Una “goccia”, seppur non indifferente, per il rispetto del detenuto e dello stesso diritto di difesa, in un “oceano” d’inadempienze. Non servono inaugurazioni-show né più commissioni, ma fatti concreti e dibattiti costruttivi. I penalisti italiani inaugureranno l’anno giudiziario a Catanzaro l’11 e il 12 febbraio prossimo con questo intento: l’unico che conoscono.
* responsabile Osservatorio Carcere Ucpi
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