Non basta la retorica del Ministero

Il rapporto Inps sull’occupazione agricola in Italia rivela alcune interessanti tendenze del settore. Tra il 2017 e il 2022 il numero di imprese che occupano lavoratori dipendenti si è ridotto del 7,1%, una variazione analoga (-7,4%) ha riguardato i lavoratori autonomi, mentre il numero degli imprenditori professionali è aumentato tra il 2017 e il 2022 del 20,6%.

In termini assoluti la categoria dei coltivatori diretti costituisce ancora, con l’89,3% (384.861 unità), la maggioranza dell’occupazione agricola, a fronte dell’estinzione dei coloni e mezzadri pari a soli 121 unità nel 2022. Colpisce poi il dato anagrafico con l’età media del lavoro dipendente si aggira intorno ai 53 anni (dopo i 50 anni si concentra più di un terzo dei lavoratori), con una quota consistente di lavoratori oltre i 70 anni, mentre i giovani sotto i 30 anni sono il 21,6%. Percentuali analoghe anche nel lavoro autonomo: le aziende dirette da titolari under 45 sono appena il 13,5%.

L’esodo dal lavoro agricolo è in gran parte il risultato delle difficoltà che questo settore ha avuto negli ultimi anni, innanzitutto per l’effetto del clima sfavorevole, con lunghi periodi di siccità, a cui si è aggiunto l’aumento dei prezzi dell’energia (49,7%) e di materie prime (fertilizzanti: +63,4%; acque irrigue: +39%; alimenti per animali: +25,1%), fattori negativi che hanno provocato nel 2022 una riduzione della produzione dell’1,5% e una contrazione del valore aggiunto dell’1,8%. Le difficoltà del settore agricolo sono evidenziate dal drastico aumento dei prezzi dei prodotti, che nel 2022 hanno registrato un incremento medio del 17,7% su base annua, il triplo dell’incremento, già considerevole, registrato nel 2021, pari al 6,6%. L’inflazione ha investito tutte le componenti della filiera produttiva e per ritrovare andamenti inflattivi paragonabili a quelli registrati nel 2022, bisogna ritornare alle crisi degli anni ’70.

Questa congiuntura negativa ha colpito soprattutto il Sud dove il settore agricolo occupa ancora una posizione rilevante, nel Mezzogiorno, si localizzano quasi i due terzi (63,2 per cento) delle aziende del Paese con il 38,7 per cento della produzione ed il 42,3 per cento del valore aggiunto (la Puglia è la regione italiana che ha più aziende in termini assoluti, con circa 191.000 imprese in totale). L’andamento negativo nel Mezzogiorno ha interessato soprattutto Molise (-6,7% la produzione in volume e -11,1% il valore aggiunto), Puglia (-4,7% e -5,1%) e Calabria (-3,4% e -4,9%) a causa della drastica riduzione delle coltivazioni cerealicole (frumento duro in particolare) e della produzione olivicolo-olearia (il calo dell’olio d’oliva in Puglia è stato di -34,3%, il dato produttivo più basso di sempre).

Dopo le ottime performance del 2017 in questi ultimi sei anni il settore è entrato in un periodo di crisi che sta favorendo un generale processo di ristrutturazione, i cui caratteri si stanno delineando. La diminuzione delle aziende agricole è l’effetto di un processo di concentrazione in atto, determinate dalle economie di scala. Le imprese sono quindi mediamente più estese con una dimensione di 11,1 ettari, mentre dieci anni fa era di 8 ettari. Una tendenza che è destinata a proseguire, visto che le aziende agricole in Italia hanno una dimensione media inferiore alla media europea (in Spagna la dimensione media è di 26,1 ettari, in Germania di 63,1 e in Francia di 68,7 ettari). La concentrazione ovviamente comporta metodi capitalistici più avanzati con conseguente riduzione della manodopera impiegata. Tuttavia, la crisi non ha solo effetti sulla struttura delle aziende, ma peggiorano in generale le condizioni di lavoro precario, soprattutto per la piaga del caporalato che attanaglia il Sud. Occorre comunque ricordare che le piccole imprese agricole e soprattutto quelle familiari costituiscono ancora la componente più significativa del totale: nel 2020, il 93,5% delle imprese appartiene a questa categoria, anche se la consistenza varia sul territorio nazionale, con i valori più elevati al Sud (97,6%) e i più bassi nel Nord-Ovest (86,7%). Di fronte alla crescente competitività internazionale e le condizioni climatiche sempre più avverse, l’agricoltura italiana deve necessariamente intraprendere una strada di ristrutturazione e di innovazione tecnologica.

Non basta la retorica di un ministero che si richiama fin dalla sua denominazione alla realizzazione della sovranità alimentare, occorrono politiche serie che non possono lasciare immutata la struttura dell’agricoltura italiana per calcoli di consenso politico, ma devono favorire processi di concentrazione produttiva, in grado di realizzare economie di scala, imitando l’esperienza dei Paesi più avanzati.

Rosario Patalano – economista

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