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Nel segno del limite: questa fragilità che unisce filosofia e psicoanalisi

Nel silenzio profondo, dove lo sguardo incontra lo sguardo e la carezza diventa linguaggio senza parole, si rivela qualcosa che appartiene a tutti: la condizione fragile dell’essere umano. Non è un caso che la poesia, con la sua immediatezza, colga ciò che il pensiero spesso dimentica: che la nostra vita non si fonda sulla forza, ma sulla possibilità di essere toccati, di ricevere e dare.

La fragilità è cifra del tempo presente. Lo psicanalista Massimo Recalcati ci ha insegnato che viviamo in un’epoca segnata da un vuoto di trasmissione simbolica, dove il desiderio sembra smarrito, sostituito da un godimento immediato che brucia la mancanza anziché abitarla. Il presente si fa schiacciante: non attende, non promette, non custodisce. È un tempo senza profondità, un eterno adesso che divora memoria e futuro. Eppure, proprio in questa condizione precaria, egli intravede la possibilità di una nuova etica: la fedeltà al desiderio, alla mancanza che ci costituisce. La fragilità, da difetto, diventa chiamata: ricordarci che non siamo mai compiuti, e che in questa incompletezza si apre la possibilità dell’incontro.

Il professore Luigi Cancrini, con sguardo clinico e umano, mostra come la fragilità non sia soltanto il segno di un’epoca, ma la trama stessa dell’esistenza. Nessuna vita è immune da fratture, traumi, mancanze. L’illusione della forza totale è solo maschera. La cura, allora, non è negazione della fragilità, né sua cancellazione, ma accettazione e rielaborazione. Cancrini ci ricorda che il dolore può diventare occasione di crescita se trova uno spazio relazionale che lo contenga, se non resta chiuso in solitudine.

Da questa prospettiva, il tempo presente è fragile non perché debole, ma perché sprovvisto di legami solidi e di linguaggi capaci di dare forma all’esperienza. Siamo esposti a un paradosso: più connessi e comunicanti che mai, eppure sempre più soli; più efficienti e performanti, eppure svuotati di senso. In questa tensione si gioca il destino dell’epoca.

La poesia ci offre un varco: “Le mani si cercano, in un’intima danza, carezze leggere, un’eterna speranza”. È una visione semplice, eppure radicale. Lì dove il tempo sembra consumarsi in velocità e disorientamento, la vera resistenza è la cura dell’altro: mani che si incontrano, silenzi che non opprimono ma custodiscono, sguardi che non possiedono ma accolgono. La fragilità, allora, non è un difetto da correggere, ma una via da abitare.

La filosofia ci insegna che ciò che è fragile non è destinato al nulla: è piuttosto ciò che richiede attenzione, ascolto, responsabilità. In fondo, ciò che è fragile è anche ciò che ha più valore, perché non si impone con la forza, ma si offre con discrezione. È qui che il tempo presente può ritrovare la sua dignità: nel riconoscere che la vita umana non è fatta per il dominio e per la prestazione, ma per l’incontro, per la cura reciproca, per la parola che consola e per il gesto che salva.

Forse il compito più urgente non è superare la fragilità, ma imparare ad abitarla. Non fuggirla, ma trasformarla in forza mite, in speranza silenziosa. In questo, la poesia ha ancora qualcosa da insegnare alla psicoanalisi, alla filosofia e alla politica: che l’umano si compie non quando vince, ma quando accoglie il limite, e lo trasforma in possibilità di incontro.

Serve una visione sistemica e prospettica sulla persona nel “qui ed ora”, verso il “non ancora”.

Serve il tempo delle relazioni piene, degli sguardi unici, e dell’etica del volto.
Un algoritmo, freddo e tecnico, non può sostituire e cancellare, la bellezza di un sorriso, e la misteriosa profondità di una lacrima.
Incontrare l’altro resta il verbo del presente.

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