Disordine mondiale? Più che di disordine si tratta di deriva globale verso la sopraffazione. Sopraffazione degli individui sugli individui, degli Stati sugli Stati, dell’arroganza sulla mansuetudine, della rassicurante e galoppante voglia di padroni sulla difficile scelta della democrazia, della prevaricazione violenta sul dialogo, dell’accattonaggio pubblico sull’idea di lavoro, crescita individuale e collettiva, della furbizia sulla trasparenza, della corruzione sulla dignità. Di più, le incontrollabili turbolenze dello scenario geopolitico riflettono, da un lato, il definitivo deteriorarsi e anzi il tramonto degli equilibri economici mondiali e, dall’altro, lo svuotamento degli organismi internazionali ridottisi a gusci vuoti, incapaci di assolvere alle proprie funzioni e contrastare il venir meno degli stessi principi fondamentali della convivenza civile su questo pianeta.
Dall’Unione europea all’Onu è tutta una paralisi se non proprio uno sfacelo. E, fatto ancor più grave, stanno montando inesorabilmente le contrapposizioni socio-economico-culturali all’interno delle stesse aggregazioni popolari che costituiscono, o hanno sin qui costituito, la base fondante delle Nazioni. Insomma, sono venuti meno gli equilibri che hanno garantito la tenuta del mondo all’indomani della seconda guerra mondiale e anche le illusioni del progresso tecnologico, dello sviluppo condiviso, della globalizzazione immaginata tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo.
Proliferano le guerre tra Stati e Nazioni, si allargano come metastasi incontrollabili le presenze violente di milizie mercenarie nel cuore dell’Africa, colpi di Stato e ribellioni si susseguono a ritmo crescente, il rischio fondamentalista della jihād islamica torna a far paura, le dittature soggiogano come sirene porzioni sempre più ampie di popolazioni prive di sogni e speranze e sempre più prigioniere dell’illusione di un ordine e di una sicurezza economica giocata sulla rivalsa di una parte sull’altra, di un mondo sull’altro e sulla pretesa di vivere comunque sulle spalle di qualcun altro. L’utopia della pace e dello sviluppo, dopo la caduta degli steccati di ogni natura e genere determinata nel novembre del 1989 dall’abbattimento del muro di Berlino, è venuta meno. Definitivamente. Le democrazie che quell’utopia avevano generato in decenni di lotte, di conquiste civili, di spazi di libertà e di cultura, sono in ritirata. Avanza ovunque l’incognita della guerra come scelta di potenza e di mantenimento del proprio equilibrio-potere. Di contro, una specie di spinta al “libera tutti” dei giochi infantili del tempo che si dipanava al di fuori della solitudine esistenziale si va diffondendo con velocità impressionante facendo proseliti prima impensabili. La scelta del “si salvi chi può” a livello individuale e collettivo sembra prevalere contro ogni valore solidale. La social catena di leopardiana memoria sembra spezzata.
In questo stato di dispersione entropica tornano in superficie nel mondo di mezzo le frustrazioni e le rivalse coloniali. I fantasmi del XIX secolo che sembravano sopiti, se non del tutto esorcizzati (povertà, sfruttamento, violenza, negazione dell’identità nazionale dei popoli colonizzati), si traducono in un nuovo revanscismo che alimenta il disordine davanti all’incapacità dell’Occidente di restituire quanto ha preso in termini di comprensione storica, di condivisione della libertà e dello sviluppo, della ricchezza tout-court e dell’affermazione del rispetto reciproco prima di tutto. Inoltre l’Occidente subisce l’effetto boomerang di un lungo predominio economico che ha finito per farla rinunciare alla cultura e alla stessa civiltà di cui era depositaria, ritrovandosi così svuotata di ogni forza di attrazione e capacità di lievitazione non solo verso il mondo esterno ma addirittura al proprio interno. Una sorta di sindrome, già sperimentata, da caduta dell’impero si va diffondendo con la voglia di arraffare il più possibile in dispregio del comune destino. Si attendono gli esiti del voto statunitense per avere un quadro più chiaro. In realtà al di là della vittoria dei profeti della svolta sovranista o dei seguaci della democrazia ferita, il destino del mondo sembra segnato. L’ordine per come lo abbiamo conosciuto non ritornerà. È tempo di lavorare a un nuovo equilibrio del mondo che, per forza di cose, dovrà essere frammentato o se più vi piace multipolare. E bisogna fare in fretta, prima che la nefasta combinazione tra uso distorto della conoscenza e della tecnologia, speculazione e ricchezza, tutte concentrate nelle mani degli oligarchi senza patria con la complicità degli Stati nazionali a essi asserviti e che già oggi tengono prigioniero il mondo, faccia il suo corso. L’ordine monolitico di un pianeta votato al dominio occidentale garantito dalla potenza militare oltre che dalla ricchezza economica degli Stati Uniti e vivificato dalla bellezza, creatività, estemporaneità dell’Europa, è definitivamente tramontato. È del tutto evidente tale verità.
La Cina è già una superpotenza in grado di condizionare il mondo (e il pianeta) e lo fa mettendo insieme una terribile miscela che mischia pianificazione e dittatura con “fughe ipercapitalistiche” esplosive. L’India è lì che osserva rivendicando il suo ruolo. E poi vi è il Brasile e i cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) e la Russia che, incapace di trasformarsi in potenza economica, mostra il suo volto truce di superpotenza nucleare oltre che militare. Su tutto incombe la reazione incontrollabile del pianeta. Il paradigma atlantico è definitivamente superato. La crisi recente della Germania alla disperata ricerca di nuove frontiere ne è la riprova, se mai ve ne fosse bisogno. In questo quadro la piccola Italia non sa far altro che continuare con le svendite del suo residuo patrimonio per coprire i suoi buchi di bilancio. Adesso tocca alle Poste e a quel che resta dell’Eni. Poi arriverà il turno di Leonardo, avendo dimenticato i governanti (tutti) la lezione della vecchia politica economica che assegna allo Stato un ruolo pilota irrinunciabile sul crinale dell’innovazione più spinta, quella che alimenta ricerca e sviluppo e garantisce l’autonomia delle scelte di politica industriale. Chiedere alla Francia per conferma e osservare la Spagna per accertarsene.
L’antidoto? Ancora una volta è nel Mediterraneo. Il mare tra le terre che unisce Europa, Africa e Asia e che conosce la solidarietà umana e la civiltà ancestrale fatta di senso del limite e della misura, tutte depositate nella sua memoria antica e vivificate dalla compassione umana o religiosa che sia oltre che dal superbo sincretismo laddove sperimentato in ogni campo. Da quello filosofico, a quello urbanistico, artistico e creativo. Ma non c’è tempo. L’Europa tutta intera dovrà immergersi nel Mediterraneo cercando l’alleanza e l’integrazione con l’Africa e il Vicino e Medio Oriente se vorrà salvarsi e salvare il mondo intero. Anche il Mezzogiorno d’Italia, finalmente vedrebbe capovolta la sua posizione e raddrizzata la sua prospettiva e finalmente rigettato il suo destino di hub energetico della vecchia Europa con annesso spopolamento e desertificazione. Non so se l’Europa lo farà. A dirla tutta temo di no, non avendo essa il coraggio (e la forza) di fermare Israele, Hamas, Hezbollah, l’Iran e l’Afghanistan, Erdogan e lo stesso Putin e pur avendone titolo e addirittura essendone investita dalla storia e dal futuro dell’umanità tutta intera. In questo caso prepariamoci al peggio.
Bentornato,
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