Dal 2002 al 2024, l’Italia ha attraversato due decenni di trasformazioni profonde, tra crisi economiche globali, una pandemia e una ripresa incerta. In questo lungo arco temporale, tre indicatori chiave dell’economia – salari, produttività del lavoro e inflazione – hanno seguito traiettorie divergenti, contribuendo a disegnare un quadro preoccupante per la condizione del lavoro e la distribuzione della ricchezza nel nostro Paese. Secondo il rapporto Inapp, i salari reali italiani sono cresciuti, nel complesso, solo dell’1% dal 1991 al 2022, contro una media Ocse del 32,5%.
Nel 2002, con l’introduzione dell’euro, molti lavoratori italiani si aspettavano che la nuova era monetaria avrebbe portato anche una modernizzazione del sistema economico e una crescita del potere d’acquisto. Ma la realtà è stata diversa. Dopo una prima fase di moderata crescita salariale nei primi anni 2000, il livello medio delle retribuzioni ha subito una stagnazione prolungata. Le crisi di 2008 e 2011 hanno colpito duramente l’occupazione e il reddito, in particolare al Sud. Nel periodo 2008-2019, secondo i dati Istat, i salari reali (cioè depurati dall’inflazione) sono rimasti praticamente fermi, mentre dopo la pandemia, dal 2020 in poi, si è assistito addirittura a un calo. L’inflazione esplosa tra 2021 e 2023, con picchi superiori al 10%, ha eroso il potere d’acquisto dei lavoratori, senza che i contratti collettivi siano riusciti ad adeguarsi in tempi utili. Intanto la produttività del lavoro – pur modesta – ha continuato a crescere.
Nel confronto con i partner europei, l’Italia mostra una crescita della produttività del lavoro tra le più basse, ma pur sempre superiore a quella dei salari. Tra 2002 e 2022, la produttività oraria è cresciuta in Italia di circa il 7% (fonte: Oecd), contro aumenti a doppia cifra in Francia e Germania. Questo significa che i lavoratori italiani producono oggi più valore per ora lavorata rispetto a vent’anni fa, ma non sono stati ricompensati in proporzione. La quota dei salari sul Pil – un indicatore chiave per misurare quanto del valore prodotto dall’economia viene redistribuito al lavoro – è progressivamente calata, mentre è aumentata la quota destinata ai profitti. In altre parole, anche se l’Italia è cresciuta poco, la ricchezza prodotta si è distribuita in modo sempre meno equo. Oggi i salari rappresentano circa il 40% del Pil, contro il 60% dei profitti. Una frattura che si è aggravata negli ultimi anni.
Il ritorno dell’inflazione tra 2021 e 2024 ha colto impreparato il mercato del lavoro italiano. Dopo oltre un decennio di inflazione bassa o nulla, l’impennata dei prezzi energetici e alimentari ha inciso pesantemente sui bilanci delle famiglie. I salari nominali non sono stati aggiornati con tempestività, e i salari reali sono scesi: nel 2022 e nel 2023, secondo Inapp, il potere d’acquisto dei lavoratori è calato in modo sensibile, anche più che in altri Paesi europei. Dal 2002 al 2024, l’inflazione in Italia è stata di circa il 51,7%, a fronte di una crescita salariale molto limitata. Questo vuol dire che, in termini di potere d’acquisto, molti lavoratori guadagnano oggi meno di quanto guadagnassero vent’anni fa, pur lavorando in condizioni più complesse e spesso con maggiore intensità.
In un sistema fiscale progressivo come quello italiano, l’inflazione fa aumentare i redditi nominali senza un corrispondente incremento del potere d’acquisto. Poiché gli scaglioni Irpef e le detrazioni non sono indicizzati all’inflazione, i contribuenti possono passare a scaglioni più alti, pagando più tasse pur mantenendo lo stesso reddito reale. Nel solo periodo 2022-2024, l’inflazione cumulata ha raggiunto il 17%. Il fiscal drag nel triennio 2022-2024 ha comportato un aumento del gettito fiscale, a carico dei soli lavori dipendenti, di circa 18 miliardi Questo incremento è dovuto al fatto che l’aumento dei redditi nominali, legato all’inflazione, ha spinto molti contribuenti in scaglioni Irpef più elevati, aumentando il carico fiscale senza un reale aumento del potere d’acquisto.
Questa divaricazione tra produttività, salari e inflazione non è solo un dato macroeconomico, ma il segnale di un modello in crisi. L’assenza di una dinamica retributiva sana ha avuto effetti depressivi sulla domanda interna, ha ostacolato la crescita e ha contribuito alla precarizzazione del lavoro. Le politiche di incentivazione all’occupazione – in particolare femminile – non hanno sortito gli effetti sperati: il tasso di occupazione femminile è ancora al 40,9%, lontanissimo dalla media europea. Oltre 4 milioni di lavoratori si trovano in condizioni “non standard” – tra partite Iva, gig economy e working poors – e il fenomeno delle “grandi dimissioni”, pur meno evidente che altrove, sta crescendo anche in Italia. Segno che il lavoro non solo è sottopagato, ma spesso anche poco gratificante, instabile e privo di prospettive.
È facile prevedere che gli effetti della progressiva affermazione dell’intelligenza artificiale, dell’IoT (Internet delle Cose) dei computer quantistici, cambierà sensibilmente il mondo del lavoro rendendo obsolete molte competenze professionali e obbligando molti lavoratori ed imprese ad investire in costose attività di upskilling e reskilling. Il tasso di diffusione di queste innovazioni sarà molto più rapido che in passato, per cui se non si prenderanno provvedimenti seri, in maniera tempestiva, per impedire che la nuova ricchezza prodotta si concentri nelle mani di pochi soggetti, si rischia di generare una crisi molto più grave della grande crisi del 1929. L’aumento di produttività dovuto all’innovazione tecnologica dovrebbe, invece, consentire una riduzione progressiva delle ore lavorate, senza compromettere le capacità di spesa delle famiglie. La maggiore disponibilità di tempo libero potrà innescare un aumento dei consumi favorendo così una crescita equilibrata. Certo, per favorire lo sviluppo economico è necessario limitare il livello di incertezza e ridurre la volatilità dei mercati ma la guerra dei dazi non sembra favorire questa evoluzione.
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