Smettiamola di parlare di tragedia o di emergenza quando una persona perde la vita sul posto di lavoro. Perché la tragedia rimanda a una sventura più o meno imprevedibile e l’emergenza a una fase critica che richiede un intervento straordinario. Quella alla quale assistiamo oggi in Italia, invece, è una carneficina ed è questo il sostantivo appropriato per vicende come quella di Brandizzo.
A Brandizzo cinque operai sono stati uccisi da un treno in corsa mentre lavoravano sui binari della tratta Torino-Milano.
Che non si tratti di una tragedia ce lo ricorda lo scenario sotto i nostri occhi. In Italia non c’è alcuna cultura della prevenzione o della sicurezza del lavoro. I governi trovano spesso e volentieri risorse per politiche di dubbia efficacia e utilità (purché capaci di portare consenso), ma per cancellare la vergogna delle morti bianche e degli infortuni sul lavoro investono solo spiccioli. Troppe aziende adottano politiche al risparmio che aumentano i rischi per dipendenti e collaboratori e compromettono la sicurezza delle persone. Basti pensare al sistema degli appalti e dei subappalti che consente sì alle imprese di risparmiare, ma mette a repentaglio la vita di migliaia di lavoratori. Le norme in materia non mancano e sono anche piuttosto stringenti, ma pochi si preoccupano di rispettarle e pochissimi di verificarne l’osservanza. Né nel nostro Paese si trae insegnamento da casi come quello della ThyssenKrupp di Torino che, nel 2007, costò la vita a sette operai.
Che non si possa più parlare di emergenza, poi, lo dicono i numeri. Nel 2022, secondo le ultime rilevazioni dell’Inail, 1.090 persone sono morte tra cantieri, fabbriche, campi, magazzini e mezzi di trasporto. E nel 2023 si procede al ritmo di tre decessi al giorno. Il fenomeno non risparmia regioni come la Puglia, dove, stando a quanto riferisce la Cgil, nel 2022 sono stati 51 gli incidenti mortali sul lavoro, con una media di oltre 80 denunce di infortunio al giorno. Di questi, 21 sono stati gli episodi fatali in edilizia e agricoltura. Sono statistiche che richiamano alla mente scenari di guerra più che l’attività di indagine svolta da Inail e sindacati. E che certamente non si riferiscono a una breve fase della storia del nostro Paese, visto che in Italia il dramma delle morti bianche caratterizza le dinamiche lavorative ormai da diversi decenni a questa parte. Perciò parlare di emergenza è offensivo nei confronti dei “crocifissi sul posto di lavoro”, come li ha opportunamente definiti il quotidiano “l’Unità”, e dei loro familiari.
In questo contesto il governo che cosa fa? “S’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità”, per citare Fabrizio de André. Le istituzioni piangono le morti bianche, promettono misure draconiane per garantire la sicurezza dei lavoratori, ma alla fine preferiscono voltarsi dall’altra parte. Le risorse stanziate nelle varie leggi di bilancio sono risibili, il reato di morte sul lavoro è una chimera, la discussione in seno alle Commissioni d’inchiesta appena insediate in Parlamento si preannuncia, come al solito, lunga e sterile. Ecco perché serve un cambio di strategia: robusti incentivi per le imprese che offrono prodotti o servizi realizzati in modo sicuro e, nello stesso tempo, sanzioni aspre per chi mette a repentaglio la vita dei lavoratori. L’occasione per il governo Meloni c’è ed è la prossima finanziaria: Palazzo Chigi dimostri di aver imparato la lezione, a meno che non voglia rendersi complice della straziante carneficina in atto.
Raffaele Tovino – dg Anap