Diciamocela tutta: la politica non è più un argomento capace di infiammare un pubblico di appassionati, ma ormai si è ristretta ad un piccolo club di cultori della materia. E forse con qualche ragione, dato il livello non proprio eccelso dello show allestito ogni giorno nei pastoni dei tiggi’ e nei retroscena dei giornaloni, notoriamente in calo verticale di aficionados. Eppure c’è stato un tempo in cui qualcosa come quattro milioni e mezzo di italiani in età da voto erano iscritti a qualche partito – praticamente uno su dieci elettori – e alle urne si recavano mai meno dell’80% degli aventi diritto al voto.
Oggi faremmo salti mortali e giravolte carpiate di gioia se riuscissimo a non perdere punti rispetto al 50% dei votanti. In quel tempo si celebravano congressi, che non erano una specie di festa strapaesana.
Con bandierine, lambrusco salsicce e cappellini con sopra in bella vista i brand degli sponsor, ma arene in cui si dibatteva di tesi politiche, con delegati, provenienti da ogni angolo d’Italia, che rappresentavano milioni di iscritti e candidati che presentavano programmi e spesso non si sapeva chi avrebbe convinto i congressisti di poter meglio rappresentare il partito per il prossimo tempo. Non è stato ere glaciali fa: andava così fino almeno alla fine degli anni ‘80, quando i partiti politici italiani, quelli di massa, come la Dc e il Pci, ma anche gli altri 4 o 5 che completavano l’intero arco dell’offerta politica, erano ispirati dalla medesima idea democratica della forma-partito che non tollerava leadership assolute, cesarismi di sorta o egemonie di uno solo al comando.
La formula vincente era quella di un “primus Inter pares”, legittimato si’ dal voto congressuale, ma contenuto nei suoi poteri perché vigeva la regola del proporzionale, per cui anche le minoranze avevano diritto di rappresentanza nel partito. Insomma: potevi perdere un congresso, ma avevi diritto ad esistere perché ciò che dava senso a tutto era l’adesione ad un’idea forte di partito che si faceva appartenenza. Ed era sconosciuto in Parlamento il fenomeno della “transumanza” poi diventato usuale col cambiamento della casacca con cui si è stati eletti in una lista bloccata per gentile concessione del capo, optando per un’altra che offre condizioni più vantaggiose.
Cos’ è cambiato, allora, al punto da rendere la politica così poco attraente?
È morto il partito “democratico” e “partecipato”, quello presente in modo capillare con le sue sezioni negli ottomila e passa comuni italiani, con aderenti che si pagavano l’iscrizione e lo sostenevano in ogni iniziativa, sentendosi parte viva e protagonisti. Al suo posto dalla metà degli anni ‘90 è sorto il “partito personale” ben descritto dal politologo napoletano Calise, un ircocervo nato dopo lo shock di Tangentopoli, con connotati leaderistici e patrimoniali, all’epoca incarnato da Silvio Berlusconi che, interpretando con creatività il sistema elettorale maggioritario venduto dai media dell’epoca come “salvifico”, traspose nella competizione politica la modalità della sua tv commerciale, vincendo a man bassa. Sottospecie del “partito personale” furono partorite da quel ceppo cesaristico che cancellò l’idea della partecipazione di base e la collegialità negli organi di direzione, promuovendo l’idea dell’uomo solo al comando grazie all’avallo delle nuove leggi elettorali che sanzionarono la pratica della cooptazione attraverso le liste bloccate: fu inaugurata la stagione delle leggi-latinorum ( Mattarellum, Porcellum, Italicum, Rosatellum) che rubarono agli elettori il diritto di scegliere gli eletti in parlamento, per consegnarla al comandante in capo, compilatore delle liste. Il resto è sotto gli occhi e non ha bisogno di particolari commenti. È un “resto” che si rispecchia nei contesti internazionali dove anche le democrazie occidentali, a partire dall’America, e alquanto agevolate dall’egemonia del digitale, sembrano esaltare la modalità cesaristica del comando solitario, mettendo in sofferenza i sistemi parlamentari e l’autonomia della funzione giudiziaria, e ribaltando così l’impianto triadico ideale disegnato dal Montesquieu. È un processo irreversibile? Crediamo e speriamo ardentemente di no, a condizione che nel corpo sociale nascano gli anticorpi per contrastare quella specie di torpore che sembra spingere verso l’assuefazione al peggio. E i media, a cominciare dalla vecchia cartastampata, hanno ancora qualcosa da dire.
Pino Pisicchio è politico e saggista
Bentornato,
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