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I suicidi in carcere e l’oziosa conta: non siamo tutti vittime del sistema

È di martedì scorso la notizia dell’ultimo suicidio in ordine di tempo, nel territorio nazionale, stavolta a Foggia. Credo il ventunesimo dall’inizio dell’anno ma se dovessimo tenere conto del macabro pallottoliere, a partire da quando organizzazioni di tutela, garanti territoriali, camere penali, ordini professionali e associazioni di magistrati, sindacati di polizia, partiti politici e altre articolazioni del libero associazionismo hanno rappresentato l’allarme in maniera più epifanica, diciamo nell’ultimo lustro, dovremmo parlare di diverse centinaia di persone. Anche perché: che senso ha resettare il conto a fine anno solare? Non c’è soluzione di continuità convenzionale che tenga. Si tratta di un disastro senza fine, o meglio dell’elemento più eclatante del disastro senza fine che è attualmente il sistema penitenziario, certamente in Italia ma anche in tante altre parti del mondo occidentale, giuridicamente avanzato e progredito.

Ora, a leggere queste affermazioni uno potrebbe dire: «Ma sei pazzo?! Riduci l’auto soppressione di vite umane al rango di semplice elemento di discussione?». Beh no, mi spiego meglio, non è che il resto del panorama del disastro ci ponga meno problemi. Se una persona affidata a una articolazione della Pubblica Amministrazione, che appunto la detiene in custodia temporaneamente, esce in condizioni di salute molto peggiori rispetto a come è entrata, questo è un problema grave.

Se il tempo dell’espiazione della pena comminata non è di durata sufficiente per consentire anche soltanto una prima superficiale presa in carico trattamentale, ma basta e avanza per l’inserimento nel welfare “parallelo” della criminalità organizzata che poi propizia il recruitment, anche questo è un problema. Se un soggetto viene attinto dalla presentazione del conto, per un reato commesso 10 anni prima e nel frattempo quella persona non è la stessa di allora e viene allontanata da un posto di lavoro che corrispondeva al reddito di mantenimento familiare e nei successivi anni, quelli più prossimi alla rimessione in libertà, lo Stato si straccia le vesti per fornirgli una nuova occasione di lavoro, del valore reddituale che non è neanche la metà di quello perduto, anche questo sarà un problema, o no? Se il tempo trascorso è funzionale solo alla dissipazione dei legami affettivi, genitoriali, generativo di sofferenze ai danni di persone fragili, questo è anche un problema. Insomma, una volta tanto, possiamo definire un luogo comune la tendenza a definire luogo comune l’adagio secondo cui non c’è la pena di morte ma si può morire di pena. E il suicidio è solo l’apice del fenomeno. Ecco perché m’azzardo a definire la conta dei suicidi una pratica oziosa.

Il provvedimento clemenziale che in tanti ci avventuriamo a pretendere, non sarebbe un atto di debolezza, tanto più se della precisione chirurgica proposta, ma semplicemente la declaratoria di fallimento dello Stato, nel senso di presa d’atto che molti errori sono stati fatti, in parte irrimediabili. Ma non è che lo stato di diritto viene ristabilito con l’accanimento a reiterare l’errore, perché pare brutto ammettere di avere preso cantonate.

Poi resettiamo, stavolta sì! E teniamo in condizioni di maggiore dignità quelli che hanno ancora molto tempo da trascorrere dentro. Basta con le esemplificazioni ad indirizzo viscerale dell’elettore medio. Innanzitutto, la certezza della pena non è la bufala che viene somministrata nei dibattiti televisivi: è il punto di arrivo, a valle, di considerazioni di bilanciamento tra la correttezza del comportamento in corso di espiazione di pena, la coltivazione della speranza, il progressivo avanzamento della soglia di reingresso nella comunità sociale (molti chiedono di essere aiutati quando stanno per uscire, non soltanto “ad” uscire) e la legittima pretesa punitiva dello Stato.

La retorica della centralità della vittima, decontestualizzata dai ruoli tradizionali e più recenti consentiti dal processo, è una orrenda strumentalizzazione delle vittime. Non vi è una sola persona, tra gli addetti ai lavori, che si sognerebbe di avere un atteggiamento meno che rispettoso e grato nei confronti dei professionisti impegnati nel comparto, a cominciare dagli agenti di Polizia penitenziaria, quindi piantiamola con le contrapposizioni, spesso fondate sul sentimento di persecuzione. E di pensare che la garanzia dei diritti fondamentali a tutela delle persone private della libertà debba necessariamente corrispondere ad una sottrazione di riconoscimenti ai danni di chi amministra la pena. Infine, non è vero che siamo tutti vittima di un sistema. Io il “carnefice” lo conosco, ed è il decisore politico che, se continua a voltarsi dall’altra parte, o è incapace o è in malafede. Per assumere decisioni ragionevoli, la Politica si astenga da interpellare astiosi antagonisti anarcoidi, si rivolga piuttosto agli addetti ai lavori, quelli in trincea, a partire dai direttori degli istituti di pena.

Pietro Rossi è Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà

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