Flaconi di plastica maltrattati. No, non è l’inizio di una campagna ambientalista particolarmente creativa, ma il cuore di una sentenza della Cassazione che ha dell’incredibile. Un dipendente ha preso a calci alcuni contenitori durante uno scatto d’ira sul posto di lavoro e i giudici hanno stabilito che non può essere licenziato. Motivo? Lo stress lavorativo. Ora, mettiamo le cose in chiaro: se pensate che questa sia solo l’ennesima stranezza del nostro sistema giuridico, forse è il momento di fermarsi un attimo e riflettere. Perché dietro questa vicenda apparentemente surreale si nasconde una domanda che riguarda tutti noi: fino a che punto lo stress può giustificare i nostri comportamenti?
La scena, se ci pensate, ha qualcosa di tragicomico. Un’azienda di imballaggi di materie plastiche, il rumore assordante delle macchine, un dipendente che improvvisamente esplode in una sequenza di bestemmie e calci contro tutto quello che gli capita a tiro. Il collega più vicino? Non si accorge di nulla, protetto dalle sue cuffie e dal fragore industriale. È come se stessimo assistendo a un episodio di violenza domestica aziendale, con i flaconi di plastica nel ruolo delle vittime silenziose. Ma ecco il punto: quei flaconi sono sopravvissuti. Nessun danno permanente, nessuna conseguenza grave. E questo, secondo la Cassazione, fa tutta la differenza del mondo. Una sorta di terapia della rabbia involontaria, se vogliamo.
Vi siete mai chiesti cosa succederebbe se applicassimo lo stesso principio ad altri contesti? Immaginate un chirurgo che, stressato da un intervento complesso, decidesse di lanciare gli strumenti chirurgici contro il muro. È evidente che il contesto fa la differenza, ma dove tracciamo esattamente la linea? La questione della proporzionalità rivela qualcosa di profondamente italiano: siamo un Paese che sa essere incredibilmente severo a fronte di piccole infrazioni burocratiche e sorprendentemente comprensivo in caso di scatti d’ira sul posto di lavoro. Come se avessimo sviluppato una particolare sensibilità per le frustrazioni lavorative, forse perché le riconosciamo come universalmente condivise.
E qui arriviamo al cuore del problema. Questa sentenza non parla solo di un dipendente stressato e di alcuni flaconi maltrattati. Parla di noi, del nostro rapporto con il lavoro, dello stress che accettiamo come normale. Perché se è vero che la Cassazione ha riconosciuto lo stress come fattore attenuante, è altrettanto vero che nessuno si sta chiedendo perché quel dipendente fosse così stressato da perdere il controllo. C’è qualcosa di profondamente ironico in un sistema che riconosce lo stress lavorativo come circostanza attenuante senza però interrogarsi sulle cause che lo generano. È come se avessimo accettato che l’ambiente di lavoro sia intrinsecamente tossico e che, di conseguenza, dobbiamo essere più comprensivi verso chi ne subisce gli effetti collaterali.
Ma fino a che punto questa comprensione è giustificata? Se accettiamo che lo stress possa portare a comportamenti violenti, anche se diretti verso oggetti inanimati, non stiamo forse normalizzando una situazione che dovrebbe invece allarmarci? La vera domanda che questa vicenda lascia aperta è tanto semplice quanto inquietante: quanti di noi, sotto pressione, non hanno mai avuto la tentazione di prendere a calci qualcosa? La differenza, forse, sta nel fatto che la maggior parte di noi riesce a controllarsi, o almeno a scegliere bersagli meno visibili. Perché, alla fine, i veri protagonisti di questa storia siamo tutti noi che, ogni giorno, navighiamo in ambienti lavorativi che spesso sembrano progettati più per testare i nostri limiti che per valorizzare le nostre capacità. E se è vero che la giustizia ha parlato, forse è arrivato il momento che anche noi iniziamo a farlo.
Dopo tutto, in un mondo dove anche i flaconi di plastica possono diventare vittime di violenza sul lavoro, forse è il caso di ripensare non solo le nostre reazioni, ma anche le condizioni che le provocano. Prima che lo stress diventi l’unica scusante che ci rimane per giustificare quello che stiamo diventando, o già lo siamo.