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Lo sport in tv: da palcoscenico collettivo a monopolio calcistico

Negli anni ’60, ’70 e ’80, la televisione italiana viveva una fase in cui il servizio pubblico si sforzava realmente di interpretare il proprio ruolo culturale e educativo, anche nello sport. La Rai, in quanto unica emittente televisiva disponibile, svolgeva un ruolo centrale nella diffusione della cultura sportiva. In un contesto in cui la televisione non era ancora dominata dalle logiche dell’audience e del profitto pubblicitario, la Rai poteva permettersi una programmazione orientata alla divulgazione, all’educazione e alla promozione di uno sport inteso come patrimonio culturale e civile.

La “Domenica Sportiva”, così come altre trasmissioni come “90° Minuto”, “Sport Sera, “Mercoledì Sport”, non erano spazi riservati esclusivamente al calcio, ma momenti di sintesi e approfondimento su tutte le espressioni dello sport: atletica leggera, ginnastica, ciclismo, ippica, sci, vela, scherma, pallavolo, pugilato, rugby, nuoto, tennis, fino alla corsa campestre o al salto con l’asta. Era una televisione che offriva una cultura sportiva a 360 gradi, capace di incuriosire, educare e avvicinare lo spettatore a discipline spesso ignorate altrove.

Non c’era sport, grande o piccolo, che non trovasse spazio nei palinsesti della televisione pubblica, almeno in occasione di eventi significativi, e le telecronache riflettevano un approccio competente, tecnico, mai urlato; il linguaggio era sobrio e preciso. Certo, il calcio era già popolare, ma conviveva con tante altre discipline. Non c’era l’attuale inflazione di dibattiti sul calciomercato, né la costante ossessione per scandali, infortuni, polemiche arbitrali, pettegolezzi sugli allenatori. Il tempo dedicato al calcio era equilibrato, e lo spazio riservato agli altri sport era rispettoso, spesso didattico. Il racconto sportivo aveva una funzione educativa, quasi civica, insegnava il rispetto per ogni disciplina e per ogni atleta, anche lontano dai riflettori del professionismo. Oggi, al contrario, sembra che la TV sportiva abbia rinunciato a ogni pretesa di pluralismo. Le reti generaliste, ma anche gran parte dell’offerta sportiva privata, concentrano in modo quasi esclusivo la programmazione sul calcio, alimentando una vera e propria monocultura sportiva. Talk show infiniti, polemiche da bar, approfondimenti autoreferenziali, gossip spacciati per notizie. I protagonisti non sono più gli atleti, ma gli opinionisti: veri e propri “guru” del pallone, non di rado più noti per il tono della voce che per le competenze tecniche. Anche eventi di grande rilevanza in altri sport, dai successi di campioni del tennis, alle imprese dei nuotatori italiani, dalle medaglie nella scherma, alle finali europee di volley o basket, faticano a trovare spazio se non nei canali tematici o in brevi sintesi online. Non si promuove la curiosità verso lo sport, ma si alimenta un consumo passivo e superficiale, incentrato più sul tifo che sulla cultura sportiva. Il problema non è soltanto televisivo o di marketing sportivo, ma profondamente culturale. Una televisione che seleziona e promuove solo una disciplina, per quanto popolare, finisce per distorcere la percezione dello sport nella coscienza collettiva. Soprattutto tra i più giovani, che crescono esposti a impliciti, fuorvianti messaggi: “solo il calcio vale”, “solo chi appare in TV è importante”. Così facendo, si depotenzia la funzione educativa dello sport, che dovrebbe essere strumento di crescita, pluralismo, socializzazione, merito, scoperta. Nel tempo, questa visione unilaterale alimenta una cultura sportiva sbilanciata e fragile, in cui lo sport è ridotto a semplice intrattenimento, a mero strumento di emozioni forti, di polemiche, di protagonismi mediatici. Viene così meno il rispetto per la fatica silenziosa dell’atleta di provincia, per la competizione meno visibile ma altrettanto nobile. Lo sport si fa spettacolo, ma perde la sua anima. Ecco perché occorre un ripensamento profondo. Non per nostalgia di un passato idealizzato, ma per rispondere a un bisogno reale e urgente. Serve una TV capace di accendere la curiosità, di raccontare le discipline meno note, di spiegare le regole, i contesti, i valori. Serve una TV che inviti ad amare lo sport, non solo a guardarlo.

Immaginiamo cosa significherebbe, oggi, per un ragazzino vedere una trasmissione che gli mostra la bellezza del salto con l’asta, la strategia dietro una regata, il gesto tecnico in una gara di lotta greco-romana o di ginnastica artistica. Potrebbe scoprire una passione, un talento, un orizzonte di senso che va oltre il tifo da stadio. Potrebbe sentirsi parte di una comunità sportiva vera, fatta di dedizione, regole, rispetto. In fondo, una TV che sa raccontare non solo il mercato del pallone, è una TV che allarga gli orizzonti, che promuove inclusione, che riconosce il valore dello sport come linguaggio universale. È questo lo spirito da ritrovare: quello di una televisione non solo spettacolare, ma formativa, capace di accompagnare il pubblico in un viaggio attraverso le infinite forme dell’impresa sportiva. Perché lo sport è di tutti.

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