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Lo spopolamento non si combatte con gli slogan ma con i servizi

Nel nuovo Piano strategico nazionale per le aree interne, approvato a marzo 2025, c’è una frase che va letta più volte per coglierne la forza: “In alcuni casi le politiche pubbliche dovranno anche avere il coraggio di accompagnare lo spopolamento e il ridimensionamento urbano”. Una frase che spezza il fiato. Perché per la prima volta lo Stato ammette che non tutto si può salvare. Non ogni paese tornerà a crescere. Non ogni scuola potrà riaprire. È un’ammissione impopolare. Ma è anche un gesto altissimo di verità. Perché accompagnare lo spopolamento non è arrendersi, non è archiviare un pezzo d’Italia. È il contrario: è esserci, quando nessuno c’è più. È scegliere di restare accanto ai pochi, con lo stesso rispetto che si garantisce ai molti. È trasformare il vuoto in presenza. È scrivere una nuova grammatica della coesione, dove lo Stato non promette miracoli, ma costruisce possibilità.

Abbiamo vissuto per anni nella retorica del recupero a tutti i costi. Ogni borgo da rilanciare. Ogni paese da rigenerare. Ogni luogo da far tornare com’era. Ma la realtà è che alcune comunità stanno svuotandosi. I giovani partono. La natalità è in picchiata. Restano anziani e case chiuse. Allora serve coraggio. E rispetto. Il coraggio di non fingere. Il rispetto di non abbandonare. Perché chi resta lo fa per amore. Lo fa perché sente che quella terra, anche svuotata, è casa. E lo Stato ha il dovere di esserci, non con i riflettori accesi ogni tanto, ma con una luce costante. Accompagnare lo spopolamento significa ridisegnare i servizi in modo sostenibile. Significa accettare che una scuola con dieci bambini non è uno spreco, ma un investimento sulla dignità. Significa che un presidio sanitario digitale, in un comune isolato, può essere più potente di una grande struttura lontana. Significa che un trasporto pubblico intelligente, anche se poco affollato, è un diritto che non si calcola a costo per passeggero, ma a rispetto per cittadino. Accompagnare è presenza quotidiana, non intervento straordinario. Ma non è solo questo.

Accompagnare, se fatto bene, può essere semina. Può diventare il terreno dove nasce qualcosa di nuovo. Una scelta di ritorno, una microeconomia, una forma diversa di comunità. Non per forza di massa, ma profonda. Non per forza numerosa, ma autentica. Quando lo Stato accompagna, può accadere che una valle ritorni a vivere. Non come prima, ma forse meglio. Non rincorrendo la quantità, ma cercando qualità di vita, relazioni, tempo. E forse è proprio qui che entra in gioco un’altra parola, che sembra distante dalla politica, ma che oggi ne incarna il cuore: meriggiare. L’arte di fermarsi nel pieno del giorno, di ascoltare il tempo che scorre lento, di percepire luce e crepe del silenzio. Le aree interne non devono diventare musei del passato, ma luoghi in cui si può ancora vivere con lentezza attiva, con consapevolezza, con presenza. Dove il ritmo non è quello della metropoli, ma quello del respiro. Dove il progresso non è solo crescita, ma cura, permanenza, profondità. Meriggiare, allora, non è un lusso. È una strategia. È una forma di resistenza al consumo compulsivo dei territori e delle vite. È dire: qui si può vivere diversamente. Qui si può scegliere di restare non per rassegnazione, ma per visione. Perché anche nei territori che si svuotano, se il tempo diventa alleato, se il ritmo si accorda alle persone, si può costruire un’economia lenta, una sanità diffusa, una scuola che non forma solo numeri ma coscienze. Si può fare impresa, cultura, vita. A misura di luce. A misura d’uomo. Lo spopolamento non si combatte con slogan. Si abita. Si accompagna. Si accoglie. E mentre lo si fa, si semina futuro. Perché quando accompagni qualcuno, gli stai dicendo una cosa semplice e gigantesca: “Io non ti lascio”. E questo, in fondo, è lo spazio dove può nascere tutto

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