Lo spettro di un Paese ingovernabile

Le elezioni politiche del prossimo 25 settembre segnano un importante crocevia nella storia della Repubblica italiana. Ad esse ci si arriva attraverso modalità piuttosto inconsuete dal punto di vista costituzionale, quali, per esempio, un presidente del Consiglio dei ministri che rassegna le irrevocabili dimissioni del Governo pur disponendo consapevolmente dell’appoggio di una solida maggioranza politica; un presidente della Repubblica che accoglie senza riserva alcuna – come invece è di prassi per un Esecutivo non sfiduciato dalle Camere – tali dimissioni e, senza sperimentare soluzioni alternative, propedeutiche alla salvezza della legislatura in corso (rinvio del Governo alle Camere, formazione di un nuovo Esecutivo politico, Governo tecnico o di fine legislatura e così via), scioglie anticipatamente le Camere e convoca i comizi elettorali.

Ma peculiarità non marginali sembrano caratterizzare anche una campagna elettorale dominata dal tema delle emergenze (sanitaria, economica, di guerra) e integrata dalla voce delle forze del dissenso, gruppi politici sorti dalla reazione alle misure costrittive assunte dal Governo durante il periodo della pandemia, il cui programma è basato essenzialmente sulla difesa della Costituzione e della libertà di cura contro ogni ulteriore forma di coazione fisica giustificata in nome dell’emergenza sanitaria.

Una non marginale peculiarità, in questo contesto, sta poi nel confronto tra i partiti tradizionali giocato anch’esso sul terreno della difesa dei diritti costituzionali ma attraverso soluzioni opposte.

Per un’area politica, si tratta del superamento degli obblighi vaccinali imposti dal Governo (alla cui sanzione tali partiti hanno fattivamente concorso); per altra area politica, la strenue difesa delle misure emergenziali, incluso l’obbligo vaccinale, quali strumenti di efficace contenimento della pandemia. In questo gioco di tensioni politiche, la Carta costituzionale entra così nell’agone dello scontro di maggioranza diventando merce di un penoso baratto tra partiti politici e corpo elettorale.

Tanto non può non far riflettere. È a dir poco deprimente che si faccia leva sul diffuso sentimento di paura per il ritorno a una condizione di vita segnata da impedimenti e fratture sociali, oltre che da evidenti discriminazioni nell’esercizio dei diritti fondamentali, come quella sperimentata in due anni di emergenza sanitaria. Per altro verso, è una campagna elettorale condotta all’insegna di un reciproco disconoscimento e delegittimazione tra i partiti in competizione che evidenzia ancor di più lo stato di strutturale debolezza della nostra democrazia, in uno con il pesante allontanamento dal figurino costituzionale. Presupposto di quest’ultimo è un assetto di pluralismo politico-partitico fondato sul riconoscimento e sulla legittimazione reciproca dei partiti in competizione, da cui soltanto deriva una dialettica che rinviene il suo naturale punto di effusione nella determinazione della politica nazionale. Essa non è una caotica mescolanza di voci e invettive, ma il prodotto virtuoso di un dialogo pluralista tra soggetti tutti egualmente idonei all’esercizio democratico di governo. La politica nazionale non è un parlare armonioso ma un confronto anche aspro basato però sull’ascolto e il rispetto reciproco delle posizioni antagoniste.

La carenza di una politica nazionale esprime, dunque, il senso ultimo di una carenza di cultura democratica e apre al pericolo dell’ingovernabilità del Paese. Ma non si commetta l’errore di credere che basti una legge a porre rimedio a tanto: come qualche illustre giurista opportunamente affermava, lo Stato costituzionale democratico vive anche di presupposti la cui esistenza esso stesso non è in grado di assicurare.

Vincenzo Baldini è ordinario di Diritto costituzionale all’università di Cassino e del Lazio meridionale

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