Mezzo milione di giovani italiani tra 18 e 34 anni, dal 2011 al 2023, sono emigrati all’estero. Questo dato ufficiale sembrerebbe perfino sottostimare di tre volte il reale flusso migratorio, come ci informa uno studio del Cnel.
Molti dei giovani che lasciano il nostro Paese sono diplomati, laureati e, in tanti, hanno anche conseguito un dottorato di ricerca. Una prima considerazione da fare è che le fasce giovanili italiane, che per effetto della radicale trasformazione demografica sono già particolarmente esigue, con l’emigrazione si assottigliano ancor di più. Un Paese carente di giovani ha prospettive incerte per il futuro, è meno vivace intellettualmente e favorisce lo status quo. Una seconda considerazione riguarda il valore, non solo economico (stimato comunque in circa 400 miliardi di euro), che il nostro Paese ha perso con la fuoriuscita di così tanta mente d’opera. Giovani che si sono formati nelle scuole e nelle università italiane, con l’aiuto e l’assistenza delle famiglie di origine, che, espatriando, contribuiscono alla produzione industriale, alla ricerca scientifica e allo sviluppo socio-economico di altri Paesi. Non si fraintenda: nessuna sollecitazione nazionalistica, ma la constatazione che dopo aver formato giovani competenti, il nostro Paese, per proprie responsabilità, non riesce a trattenerli.
L’Italia, tra gli Stati europei, è quello con minore capacità di creare occupazione, il cui tasso è del 66 per cento mentre quello medio dell’Europa è del 75. Non solo, l’occupazione spesso si presenta instabile e a termine, anche per coloro che hanno titoli di studio elevati.
Gli occupati in professioni intellettuali e nei servizi alle imprese (pubblicità, marketing, comunicazione, consulenza tecnica e manageriale, ricerca e sviluppo, gestione delle risorse umane) crescono molto meno della media europea. L’assetto produttivo italiano e, per alcuni ambiti, anche la Pubblica amministrazione hanno uno sviluppo modesto nei settori ad alta innovazione scientifica, tecnologica e culturale. In breve: il processo di terziarizzazione è nettamente a favore di settori arretrati che consumano invece di produrre risorse. Un esempio, tra altri: in Italia si conta un occupato nei servizi alle famiglie (badanti, colf e così via) per ogni 84 abitanti contro un rapporto medio europeo di uno su 159. Mentre i cosiddetti “lavoratori della conoscenza”, cioè quelli che trattano informazioni, identificati da Cnel e Istat come lavoratori laureati occupati in professioni intellettuali e tecniche, sono inferiori almeno di cinque punti percentuali rispetto alla media europea. Si assiste, dunque, a una crescita molto contenuta di lavori qualificati e al conseguente spreco di risorse umane giovani, scolarizzate e qualificate.
Il nostro Paese presenta una domanda di lavoro più orientata verso le basse qualifiche e meno verso quelle alte, diversamente da quanto accade nel resto dell’Europa centro-settentrionale. Perciò, i giovani italiani istruiti, benché relativamente pochi (l’Italia è al penultimo posto in Europa per numero di laureati), risultano troppi, dovendo confrontarsi con scarse occasioni di lavoro qualificate. E va anche peggio per i giovani laureati meridionali che restano disoccupati, mediamente, oltre i 30 anni. È il fenomeno della over-education (sovra istruzione), ossia un disallineamento tra le conoscenze acquisite durante il percorso formativo e le competenze richieste dal mercato del lavoro. È noto ai più che l’Italia ha una struttura produttiva fondata sulle micro-imprese (con meno di 10 addetti) che rappresentano circa il 95 per cento del totale e che occupano quasi il 50 per cento dei lavoratori. Aziende che, proprio per le loro dimensioni, non hanno capacità di investire in ricerca e sviluppo né in formazione e crescita del personale, oltre a non disporre di funzioni organizzative in grado di assorbire lavoratori con elevate competenze professionali. Si consideri che il 73 per cento dei giovani che lascia l’Italia svolge, nei Paesi di arrivo un lavoro intellettuale o tecnico. Se al quadro qui abbozzato si aggiunge la percezione che hanno i giovani delle condizioni offerte dai Paesi di destinazione, quali migliori opportunità lavorative, di studio e formazione e una più elevata qualità della vita, è del tutto conseguente la scelta di abbandonare, spesso definitivamente, l’Italia.
Dalle risposte che i giovani expat riferiscono sul nostro Paese, raccolte nell’indagine già citata del Cnel, emerge una netta insoddisfazione verso le politiche pubbliche del lavoro, la cultura imprenditoriale, la valorizzazione delle competenze, il riconoscimento del contributo dei lavoratori, le retribuzioni. Per i giovani compiere esperienze di studio, di formazione e lavoro all’estero è affatto positivo e vanno incoraggiate. La possibilità di confrontarsi con altre culture, differenti stili di vita e modi diversi di intendere lavoro e professioni, non può che valorizzare le conoscenze e le abilità acquisite durante i percorsi di studio e lavorativi già svolti in Italia. E qui il punto in questione: affinché i giovani migranti italiani possano rientrare, dopo un percorso all’estero, occorrerebbe che il loro Paese risultasse attrattivo. Non sono sufficienti gli annunci di iniziative estemporanee per favorire il rientro dei cervelli in fuga. Sono necessarie, come gli stessi expat suggeriscono, politiche del lavoro pubbliche stabili e coerenti in grado di valorizzare i talenti dei giovani, così da incentivare un cambio di verso delle scelte imprenditoriali. Non è semplice, ma è una delle poche chances disponibili per un Paese che non voglia considerarsi solo come luogo di vacanza nel quale rientrare saltuariamente.
Bentornato,
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